È la rock star dei registi, il dio dei geek, il principe della cultura pop e del marketing. Ogni suo film è un evento. Quentin Tarantino è venerato dalla critica e dalle orde di fan di tutto il mondo. È anche il re del copia/incolla, bello e appariscente. Il nostro uomo è come una specie di riuscito dj postmoderno che compila o remixa il cinema di genere – spaghetti western, blaxploitation, guerra, chambara – per creare una cultura condensata. Tarantino ha anche gusto e talento, sa filmare, ha dalla sua dialoghi a scalpello, adora gli attori, anche se talvolta i suoi personaggi risultano stereotipi vuoti, pupazzi disincarnati. Il suo penultimo film, quello sugli otto bastardi (The Hateful Eight), era per buona parte un tre ore di pettegolezzi sul nulla, 180 minuti di tortura e pugni in faccia per la povera Jennifer Jason Leigh, un geyser di sangue e barbecue per nascondere una sceneggiatura inconsistente.
Quattro anni dopo Tarantino si ripresenta con C’era una volta a… Hollywood. L’azione di questo “racconto” si svolge nel 1969, tra l’8 febbraio e l’8 agosto, vigilia del massacro dell’attrice Sharon Tate da parte degli hippy della setta Manson. La pellicola è composta da una serie di innocui piccoli flashback, digressioni, estratti di film inventati di sana pianta, Leonardo DiCaprio “appiccicato” in La grande fuga al posto di Steve McQueen e due distinti archi narrativi: alcuni momenti della vita di Sharon Tate (una Margot Robbie tutta smorfie e faccette insopportabili tutta da dimenticare) e la costante amicizia tra l’attore Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e il suo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt). Alcolizzato e depresso, Rick è sul declino che conduce al viale del tramonto. Ha riscosso il massimo del successo in una serie tv, ma ormai fa parte del passato, è raccomandato in extremis da Marvin Schwarz (Al Pacino) per interpretare spaghetti western di serie B in Italia, a Roma.
Questo è tutto. Con C’era una volta a… Hollywood, Tarantino firma la sua sceneggiatura più rilassata, la meno riuscita e ricercata. Il tentativo è quello di sovrapporre due orizzonti metanarrativi: la fine dell’Occidente e l’autodistruzione della controcultura. Entrambe le storie sono sintomatiche della guerra in Vietnam, anche se qui il Vietnam è poco più che un rumore di sottofondo, citato brevemente alla radio e nel borbottio più loquace della brigata-Manson. Per 2 ore e 42 (40 minuti in più rispetto all’imparagonabile Bastardi senza gloria), il cineasta dichiara il suo amore alla settima arte tramite carrellate e primi piani di frontoni di sale cinematografiche, drive-in, proiettori da 35 mm, il tutto condito da molteplici riferimenti alle opere o alle serie che amava, non mancando di strizzare l’occhio ai suoi stessi film. Il problema è la drammaturgia. Questa non è la prima volta in cui costruiamo una storia abbandonando il personaggio principale per osservare da vicino due figure oscure. È lo stesso principio narrativo che accompagna Rosencrantz e Guildenstern sono morti del drammaturgo Tom Stoppard, film che relega Amleto nell’ombra per pedinare due antieroi, patetici burattini di un destino che non gli appartiene. Tarantino abbandona rapidamente l’arco narrativo dedicato a Sharon Tate per concentrarsi meglio sui suoi squallidi vicini di casa, Rick Dalton e Cliff Booth.
La famiglia Manson è in agguato nell’ombra, in attesa del tempo di uccidere. L’autore ricrea una suspense morbosa con Sharon Tate che deve morire, lacerata da sedici coltellate, mentre è incinta di otto mesi. E tuttavia il regista ama davvero troppo i suoi antieroi. Li filma senza posa, instancabilmente: in macchina, alle prese con chiacchiere su vari e vari argomenti, riprendendo i loro movimenti verso gli studio, ritornando dagli studio e viceversa. Alcune sequenze sono infinite, ripetitive, ma Di Caprio e Pitt sono troppo belli e brillanti nella loro Cadillac vintage! Al traguardo, C’era una volta a… Hollywood lascia in bocca il sapore della delusione. Ci sono momenti antologici, un finale adrenalinico con fuochi d’artificio, attori come Brad Pitt e DiCaprio all’apice del loro talento, una playlist dell’inferno. C’è quella nostalgia che rievoca Jackie Brown e l’Hollywood del 1969 è ricreata con dettagli degni del miglior maniaco del dettaglio, ma il film non decolla, sembra più una sequenza di schizzi o, spingendo il piede sull’acceleratore, una serie Netflix di ottima fattura che si muove a scatti e non va da nessuna parte. Soprattutto, C’era una volta a … Hollywood genera una domanda: a parte le iniziali buone intenzioni, cosa ci ha veramente detto Quentin Tarantino in questi 162 interminabili minuti? Nelle sale dal dal 18 settembre.
Chiara Roggino