La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (2)

Non ci piove, fu “un piccolo balzo per l’uomo e un grande passo per l’umanità”; e vedrete che l’anno prossimo, per il cinquantennale dell’allunaggio del 20 luglio 1969, fioccheranno celebrazioni e testimonianze, speciali tv e pubblicazioni varie. Tuttavia, in attesa della ricorrenza, non si può dire che “First Man” abbia più di tanto scaldato i cuori veneziani. Tiepidi applausi alla proiezione stampa, il che non significa granché, s’intende; però io ricordo il vivace chiacchiericcio dopo “La La Land”, due anni fa qui al Lido, lo schierarsi contro o a favore dei cinefili delusi o entusiasti, mentre stavolta il film di Damien Chazelle, per nulla ballerino, ha lasciato gli addetti ai lavori abbastanza freddi. Chissà come reagirà il pubblico pagante quando uscirà nelle sale.
Non che sia brutto, “First Man”, ovvero “Il primo uomo” (Albert Camus in questo caso non c’entra); Chazelle è un regista eclettico e personale, Ryan Gosling è diventato il suo attore feticcio e certo non delude, il film, ricco di effetti speciali e preciso nella ricostruzione, sfodera la giuste dose di eroismo americano senza rinunciare alle strettoie del “fattore umano”. Il tutto incarnato nella figura di Neil Armstrong, appunto il primo essere umano che mise piede sulla Luna, lasciando la celebre impronta, subito raggiunto dal collega Buzz Aldrin, mentre il terzo astronauta, Micheal Collins, restò in orbita a controllare il modulo di comando Columbia che avrebbe riportato tutte e tre sulla Terra.

L’idea del film, tratto da un libro di James R. Hansen, è di reso contare l’impresa spaziale del 1969 partendo dal lontano 1961, naturalmente per mostrare quanto essa sia stata faticosa, funestata da lutti e fallimenti, tecnicamente rischiosa, politicamente anche osteggiata, almeno fino al successo pieno del 20 luglio. Insomma, se la fine è nota, e giustamente gloriosa, assai accidentato fu invece il viaggio intrapreso dalla Nasa per sconfiggere sul tempo i sovietici; e “First Man”, nell’arco di circa 140 minuti, lo racconta senza enfasi, con dettagli pure curiosi, probabilmente poco noti anche agli americani, lasciando che il pubblico si affezioni a Neil Armstrong, interpretato appunto da Ryan Gosling. Un Armstrong laconico e problematico, meno stabile di quanto apparisse alla solida moglie, segnato per sempre dalla morte della figlioletta Karen, quasi incapace di festeggiare anche nel clima di trionfo planetario.
“Questa è una storia che doveva essere articolata tra la Luna e il lavello della cucina, tra l’immensità dello spazio e il tessuto della vita quotidiana” sostiene Chazelle. Tutto vero, “First Man” è trapunto di finezze, di episodi toccanti, anche di silenzi, attraversato da un senso di minaccia costante, quasi a dirci come fu pionieristico, in buona misura senza rete, il volo di Apollo 11 (a partire dalla lettera già preparata dalla Nasa in caso di morte di Armstrong e Aldrin).
Nondimeno sul tema si rimpiangono – perlomeno io ho rimpianto – film come “Uomini veri” di Philip Kaufman o “Apollo 13” di Ron Howard: il primo per lo spessore epico/filosofico della ricostruzione storica, il secondo per la tensione bruciante nel racconto di un fallimento trasformato in successo.
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Se l’americano “First” ha aperto il concorso, l’italiano “Sulla mia pelle” ha inaugurato la sezione Orizzonti. Un’altra storia vera, verissima, ma di quelle per le quali non andare fieri, almeno come Paese. Partendo dalla tragica fine, il film di Alessio Cremonini rievoca l’ultima settimana di tribolata vita di Stefano Cucchi, trovato morto il 22 ottobre del 2009 nel reparto “sotto sorveglianza” dell’ospedale romano “Sandro Pertini”.
Ha scritto bene sul “Corriere della Sera” Pierluigi Battista: “L’Italia cerca di dimenticare una pagina vergognosa, una storia di botte e di soprusi che dovrebbe farci arrossire. Ma per fortuna esce ora un film che ci aiuta a ricordare. A dirci che in uno Stato di diritto, il primo diritto da custodire è quello di non essere maltrattati”. O addirittura uccisi: per abuso di potere, senso di impunità, disattenzione, complicità, disumanità.
Le fotografie del cadavere di Cucchi le ricordiamo tutti. Un corpo macilento e straziato, coperto di lividi provocati da un pestaggio inflitto da due carabinieri in borghese, una vita che si sarebbe potuta salvare se lo Stato italiano, nel suo insieme, non avesse sepolto in una cella quel malridotto trentenne romano, con precedenti di droga, beccato il 15 ottobre di quell’anno da una pattuglia di carabinieri con addosso 20 grammi di hashish e 2 osi di cocaina.
Il film è una sorta di “via crucis”, crudele ma non sadica, soprattutto dettagliata al millesimo nella ricostruzione, e purtroppo ne conosciamo l’esito finale. Cremonini e la sceneggiatrice Lisa Nur Sultan non fa di Cucchi un giovanotto incolpevole, sottolinea alcuni dei suoi errori durante quei giorni atroci, non racconta il dopo, cioè indagini e processo, assoluzioni e condanne; preferisce soffermarsi sulle dinamiche di quel “sequestro legale di persona” sul quale in molti (furono circa 140 le persone con le quali il poveretto entrò variamente in contatto) non hanno detto la verità.
Alessandro Borghi, dimagrito 18 chili, immerso fino al midollo nel ruolo di Cucchi, a restituirne atteggiamenti strafottenti e coloriture vocali, è il punto di forza del film; ma tutti risultano credibili, senza torsioni faziose, a partire da Jasmine Trinca, Max Tortora e Milvia Marigliano, cioè la sorella Ilaria e i due genitori).
Il film arriverà contemporaneamente in tv con Netflix e in alcune sale mirate con Lucky Red il 12 settembre. Gli esercenti hanno protestato, parlano di concorrenza sleale, Andrea Occhipinti ha risposto a sua volta. Non saprei prendere partito sul tema, mi auguro solo, con l’aria che tira, che più italiani possibile vedano “Sulla mia pelle”.

Michele Anselmi