La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 11
La verità? Ricordo davvero come un incubo, parlando di copertura giornalistica della Mostra del cinema, i miei ultimi anni veneziani nel ramo “carta stampata”. Prima al “Giornale” e poi al “Secolo XIX”. Che stress, che perdita di tempo, che fibrillazione inutile. Per dire: ogni mattina, dopo la prima proiezione stampa, verso le 10 e mezza dovevo produrmi in una raffica di telefonate: con i colleghi del giornale per il quale lavoravo, con il caposervizio degli Spettacoli, di nuovo con i colleghi se non li incontravo per strada al Lido, talvolta con il direttore che si faceva venire di notte qualche “idea”, di solito insensata. Il tutto per definire chi avrebbe scritto cosa.
C’era il critico al quale non bastava pubblicare un’ampia recensione dei film di giornata in concorso ma voleva occuparsi anche delle conferenze stampa solo per avere un titolo più vistoso in pagina; c’era la grande firma che voleva dire ad ogni costo la sua su questo o quel film, s’intende da “non” addetto ai lavori; c’era l’altro collega, spesso collaboratore esterno e senza rimborso spese, giustamente in cerca di uno spazietto quotidiano per farsi pagare più pezzi possibile; c’era l’ospite di riguardo che chiedeva biglietti per il film più atteso, naturalmente alla proiezione di gala in Sala Grande.
Chiunque ha lavorato nei quotidiani di carta sa che è così. Per tacere degli spazi a disposizione: la dittatura dei grafici impediva di concordare misure accettabili dei pezzi prima delle cinque del pomeriggio, e a quel punto la proiezione delle 19, spesso il film più atteso, andava a farsi benedire.
Ciliegina sulla torta: il redattore capo che, letto qualche lancio dell’Ansa su questa o quella frase pronunciata da una star fuori dalla conferenza stampa o dagli incontri di gruppo, alle nove di sera, magari mentre eri ancora in sala col telefono silenziato, ti chiedeva di rimettere mano al pezzo mandato due ore prima per fare il titolo sull’irrilevante battuta carpita dall’agenzia.
Ho passato anni, al Lido, nel tentativo di mettere insieme con un’accettabile armonia dati di cronaca e sostanza critica, virgolettati utili e giudizi estetici, spigolature divertenti e discorsi seri. Quasi sempre è stato inutile, alla fine, per quieto vivere, si faceva quasi tutto ciò che veniva richiesto dai capi in redazione, anche per non guastarsi il sangue una volta a cena.
Come quella volta che dal “Giornale” mi chiesero l’impossibile, cioè scrivere un ritratto velenoso dell’allora direttore della Mostra, Marco Müller, il quale solo qualche tempo dopo sarebbe divenuto beniamino della medesima testata una volta andato a dirigere la rivale Festa di Roma grazie al duo Alemanno-Polverini, per titolare in prima pagina che c’era “un maoista alla Biennale”. Semmai era un fine sinologo, di sicuro non un seguace del Grande Timoniere.
Grazie a Dio, per il sottoscritto, quei tempi sono finiti. Non debbo più correre da un regista all’altro senza aver visto i loro film, posso fregarmene del cosiddetto “colore”, cioè delle feste, delle madrine, degli abiti, del tappeto rosso, della scena di sesso audace o di quanto dirà il Vaticano attorno a “Magdalene”. Adesso, essendo in pensione, faccio tutto da solo. Contano solo i film, spogliati delle chiacchiere. Poi magari topperò il giudizio estetico, ma non arriverò più esausto al termine della Mostra dopo dodici giorni del cavolo.
Michele Anselmi