L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”

Mai dire mai. Ettore Scola, 82 anni il 10 maggio scorso, aveva promesso di lasciare il cinema. Per saggezza, stanchezza, un pizzico di superbia, rifiuto di certe logiche di snervante attesa, mancanza di ispirazione, fare il nonno, rileggere i classici latini. Pure per «non chiudere la carriera in bruttezza». Invece, a dieci anni da “Gente di Roma”, eccolo di nuovo sul set, al Teatro 5 di Cinecittà, che non chiameremo mitico anche se un po’ lo è, per un omaggio all’amico Federico Fellini. Titolo: “Che strano chiamarsi Federico”, da un verso di García Lorca che in spagnolo recita così: «Entre los juncos y la baja tarde / ¡qué raro que me llame Federico!».
Capelli bianchi sempre folti, le pause della voce scelte con cura, il bastone per camminare meglio dopo due fratture alle gambe, il regista irpino scherza sul ripensamento. «In effetti avevo detto che non avrei più fatto film, e ho tenuto fede. Per motivi politico-psicologici non avevo più voglia. Ma questo non è un film che somiglia agli altri. L’ho fatto perché non è un film. Ci sono colpevoli per il tradimento di quella promessa». Chi sono? «L’implacabile Roberto Cicutto» e «l’efferato Felice Laudadio», il primo amministratore delegato di Istituto Luce-Cinecittà, il secondo direttore del festival di Bari; e poi a vario titolo, la società di produzione Palomar, Cinecittà Studios, Raicinema, Cubovision di Telecom, il ministero ai Beni culturali, la distributrice Bim.

Dopo cinque settimane di riprese, Scola ha messo mano al materiale, un mix di scene con attori e materiale di repertorio, perché “Che strano chiamarsi Federico” è uno strano cine-manufatto firmato da un devoto ammiratore e amico. Il grande riminese morì il 31 ottobre 1993, si avvicina il ventennale. Cifra tonda, e c’è da augurarsi che il film-non film sia pronto per Venezia, anche se il regista di “C’eravamo tanto amati” non ama andar di fretta al montaggio. Però ammette: «Stavolta sarò più veloce. Non so che oggetto verrà fuori, vi darò la notizia appena lo saprò. Dentro ci sono le intenzioni, le emozioni, i sentimenti. So che a me piacerà, continua a riempirmi di curiosità. Però non so se basta».
Scola minimizza un po’, finge insofferenza nei confronti del press-agent Enrico Lucherini, «capita con lui di trovarsi in situazioni imbarazzanti»; vorrebbe sottrarsi in fretta alla folla di cronisti richiamata a Cinecittà per curiosare tra le costruzioni del Teatro 5, aperto anche al pubblico fino al 23 giugno. Costo dell’operazione circa 2 milioni di euro, apparato tecnico di gran lusso: fotografia di Luciano Tovoli, scenografie di Luciano Ricceri, musiche di Andrea Guerra, sceneggiatura dello stesso Scola insieme alle figlie Paola e Silvia.
E proprio Silvia fa da cicerone nell’enorme studio diviso in sezioni, ciascuna delle quali corrisponde a un periodo storico rievocato da “Che strano chiamarsi Federico”. Ecco il teatrino d’avanspettacolo dell’epoca fascista, dove i giovani autori di rivista Fellini e Ruggero Maccari portano le rispettive fidanzatine sperando di raccogliere applausi, invece il pubblico lancia ortaggi, uova e gatti morti. Ecco la redazione del giornale umoristico “Marc’Aurelio”, fucina di talenti cresciuta attorno al disegnatore Attalo, dove il ventisettenne Fellini e il sedicenne Scola si conoscono nel 1947. Ecco il Caffè Giardino di via Veneto, nome inventato, dove l’insonne Fellini trascina i suoi amici a tirar tardi chiacchierando di cinema e ragazze. Ecco la lussuosa Dodge nera, comprata coi primi guadagni, dove Fellini carica Scola e qualche altro cinematografaro per immergersi nella notte romana. Incontreranno, nel film, un “madonnaro” orgoglioso incarnato da Sergio Rubini e una battona alla Cabiria interpretata da Antonella Attili.
E loro due, Fellini e Scola? Li vedremo solo da giovani, diciamo fino alla metà degli anni Cinquanta: sono entrambi di famiglia, per la precisione nipoti di Scola, Tommaso e Giulio, figli del regista Gianfranco Lazotti. Truccati a dovere dal veterano Franco Freda, somigliano alquanto agli illustri cineasti, e hanno lavorato duro anche sulla cadenza; mentre, da uomo maturo, Fellini diventerà solo una silhouette ripresa in controluce, in riva al mare, all’albeggiare del giorno, forse mentre gira “La dolce vita”.

Avverte Scola: «Nel film non c’è l’ambizione di ricostruire certe emozioni della sua visionarietà, è uno sguardo personale, il mio, con tanti angolini». Però… «Fellini è un po’ come Leopardi. Non tutti hanno visto i film dell’uno o letto le poesie dell’altro, ma tutti siamo stati condizionati dai loro sentimenti poetici». In effetti, è così. Nel salutare, Scola confessa che «con Federico c’è stata una vicinanza fino all’ultimo giorno, magari ci si telefonava all’alba per dieci giorni di seguito e poi non ci sentivamo per mesi». A entrambi piaceva disegnare caricature, praticare l’umorismo ispirandosi alla realtà, stare sul set, corteggiare le donne. E in fondo, sia pure in modi diversi, anche la politica li ha uniti.

Michele Anselmi