L’angolo di Michele Anselmi 

Alzi la mano chi, anche tra gli ultrasessantenni di buona memoria e “sessantottina” esperienza, ricorda esattamente che cosa fu “il caso Braibanti”. Emiliano di Fiorenzuola d’Arda, già partigiano torturato dai fascisti a “Villa triste”, ebreo, comunista, poeta, scrittore, drammaturgo e pure mirmecologo (studioso delle formiche), Aldo Braibanti fu condannato nel 1968 a nove anni di carcere, poi ridotti a sei, alla fine ne scontò comunque due, sotto l’infamante accusa di “plagio”. Sembra impossibile oggi, e anche allora, del resto, alla parte migliore d’Italia parve una sorta di remake del processo a Oscar Wilde, ma con un secolo di ritardo.
L’articolo 603 del Codice Rocco puniva infatti “chi costringe qualcuno in suo potere”; in questo caso l’omosessuale Braibanti fu accusato di aver “plagiato”, nei fatti soggiogato e corrotto psicologicamente, un suo giovane amico 23enne, Giovanni Sanfratello, che era andato a vivere con lui a Roma nei primi anni Sessanta. Con l’aiuto di un pm compiacente, deciso a condurre una sorta di crociata nei confronti di quell’intellettuale considerato irregolare, sospettato “di pederastia in ambiente pseudo-artistico”, il padre del giovanotto riuscì a portare Braibanti in tribunale, e il caso divise per mesi l’opinione pubblica.
Quanto a Sanfratello, fu trasferito prima a Modena in una clinica privata per malattie nervose, poi al manicomio di Verona dove subì un gran numero di elettroshock; tutto ciò contro la sua volontà, pur avendo egli scagionato Braibanti. Dopo quindici mesi di internamento fu dimesso, con una serie di clausole che fanno rabbrividire: dal domicilio obbligatorio in casa dei genitori al divieto di leggere libri che avessero meno di cento anni.
Carmen Giardina e Massimiliano Palmese hanno girato un utile documentario sulla vicenda. Si chiama “Il caso Braibanti”, dura poco più di un’ora: passato alla Mostra del cinema di Pesaro 2020, è stato acquistato da Sky Arte che lo manderà in onda a primavera, è entrato nella cinquina docu-fiction dei Nastri d’argento, lo si potrà vedere intanto al festival romano del Palladium tra il 9 e il 14 marzo.
Io l’ho seguito con piacere e interesse, anche con un crescente senso di disagio misto a commozione. Perché fu davvero un capitolo storico vergognoso, ripugnante: per le modalità dell’incarcerazione e del processo, per il tono “politico” della persecuzione prolungata, per il timing a suo modo paradossale (in pieno Sessantotto). In teoria non dovrebbe bastare essere artisti, poeti e intellettuali per risultare intoccabili. Nel caso di Braibanti, uomo mite e raffinato, promotore di riviste come “Quaderni piacentini” e laboratori artistici come quello di Castell’Arquato, appare però lampante la persecuzione condotta con occhiuta ferocia, nel tentativo di distruggere l’uomo e il suo ambiente, artistico e culturale, di riferimento.
“Io sono stato l’utile idiota per una certa battaglia della parte più nera di una certa Italia” confesserà Braibanti, scomparso nel 2014, all’età di 91 anni. Il documentario rievoca per capitoli il suo profilo umano e artistico, e naturalmente ripercorre la cronaca del processo, che fu clamoroso e insieme anacronistico. La condanna suscitò ampia eco in tutta Italia, a favore dell’intellettuale si mobilitarono Alberto Moravia, Carmelo Bene, Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini, i fratelli Bussotti, Umberto Eco, Marco Bellocchio, Alberto Grifi e numerosi altri intellettuali e artisti. Qualcuno, come Marco Pannella, fu pure denunciato per calunnia nei confronti di un Pubblico ministero. E solo tardivamente “l’Unità”, dapprima titubante, prese con forza le difese dello scrittore vessato.
Dal film esce, tra testimonianze d’epoca, frammenti teatrali e interviste raccolte adesso (molto intensa quella al nipote Ferruccio), il ritratto attendibile di un’Italia in bilico: da un lato bigotta e reazionaria, omofoba e retrograda; dall’altro ribelle e civile, progressista e insofferente. Giova ricordare che nel 1981 il reato di “plagio” venne finalmente abolito.
Senza svolazzi sul piano stilistico, scandito dalle musiche di Pivio Pischiutta, il documentario spiega e commenta, sposando naturalmente un punto di vista; suona molto intonata al commiato la poesia di Braibanti letta nel finale da Lou Castel, specie il verso che dice: “Trasvoliamo presto perché la vita mi sfugge tra le dita”.
PS. Sulla stessa vicenda, così emblematica e vergognosa, sta preparando un film Gianni Amelio, protagonista forse Luigi Lo Cascio.

Michele Anselmi