È un peccato che Slow Food Story, lodevole documentario firmato da Stefano Sardo, sarà distribuito solo nelle sale del centro-nord. E rattrista pensare alla collocazione televisiva (su Doc3 in seconda serata) cui la creazione del regista piemontese avrà diritto. Ma si sa, la legge dell’audience non perdona. Eppure il racconto della vita di Carlo Pertini, Presidente dell’associazione Slow Food, appassiona e convince. Durante la presentazione del film, al Quattro Fontane, Carlìn si è concesso alla stampa insieme al regista e al produttore Stefano Giuliano. In sala anche Azio Citi.

Perché ha scelto di fare questo film?

Stefano Sardo: Avevo una certa familiarità con la storia e i suoi personaggi, li conosco da quando ero in culla. Ho cercato di pormi al di fuori del mio coinvolgimento personale e di raccontare gli aspetti più divertenti della vicenda. È stato come aprire i cassetti delle foto di famiglia. Ho capito che questa è una storia fatta di intuizioni, di costanza e perseveranza – fino a 15 anni fa Slow Food non era ancora pienamente accettata. Ho inoltre imparato molto dall’ironia di Carlo, e ho molto ammirato il modo in cui ha gestito l’importanza che man mano ha acquisito il suo progetto.

C’è qualcosa che avrebbe voluto raccontare e non l’ha fatto?

S.S. : C’è molto materiale filmato e non messo nel film. La selezione è stata davvero difficile, e per me è stato doloroso lasciare fuori alcune cose – politiche, della storia particolare di Bra (cittadina natale di Petrini, ndr.)… Ma non c’era abbastanza spazio per creare un vero e proprio dibattito, e questo non voleva essere un dibattito, ma il racconto di una storia.

“La nostra difesa è attraverso il cibo, di fronte agli sbandamenti della politica”. Come si applica questo concetto oggi?

Carlo Petrini: Penso che in questa crisi ci sia bisogno di nuovi paradigmi e nuove riflessioni. Per anni abbiamo chiesto alla terra sempre di più, tra poco ci troveremo ad essere senza acqua, abbiamo addirittura perso alcune coltivazioni. La classe dei contadini sta morendo in Italia, e la materia prima è pagata pochissimo al produttore. Cambiare questo paradigma è fondamentale. Tutti parlano di crescita, ma non si rendono conto che ci stanno seduti sopra. Negli Usa questi temi sono all’ordine del giorno, e sono trattati non da un qualsiasi ministro ma dallo stesso Presidente. Qui invece si dorme, non si considera ancora la gastronomia come una scienza complessa.

Oggi i negozi bio e  “a Kilometro 0” stanno entrando nelle grandi città. Perché hanno una dimensione elitaria e non sono ancora alla portata di tutti?

C.P. : Penso che sarà un gioco-forza tornare a conciliarci con il biologico, con la natura. La terra ha assorbito talmente tante sostanze chimiche da volerne sempre di più: è ormai tossicodipendente. La dimensione del bio è elitaria, è vero, ma pensiamo al fatto che il produttore bio paga per la certificazione, e inoltre essendoci ancora poca domanda naturalmente il prezzo sale. Ritengo comunque che prima del biologico sia importante il prodotto locale, tipico, un concetto che anche in un paese come l’America sta prendendo strada.

Come mai in una tv come quella italiana, dove la gastronomia abbonda, si relega un prodotto come questo su Doc3? Si poteva dare una collocazione migliore…

Nicola Giuliano: L’abbiamo chiesto, ci hanno detto di no. C’è una sola legge, purtroppo, quella dello share e dell’audience. Credo ci sia un problema culturale gravissimo nel nostro Paese: non dimentichiamo che abbiamo uno dei maggiori tassi di analfabetismo funzionale, il 47%: gente che legge un testo e non ne capisce il significato. Questa è la tragedia del nostro Paese, un paese che non forma più.

Ilaria Tabet