Sono stati comunicati i dati sullo stato di salute del cinema in Italia. La novità più immediata riguarda il vertiginoso calo durante le feste natalizie, il periodo d’oro di tutto l’anno. Siamo scesi a meno 35,71% presenze e meno 38,6% incassi. Mai registrato un risultato tanto disastroso. Dato ancora più negativo se teniamo conto che le uscite natalizie hanno segnato un affollamento senza precedenti: 29 film in più rispetto all’anno precedente, a testimonianza della follia di distributori ed esercenti, pronti a cannibalizzarsi tra di loro. Appare invece positiva la quota del cinema italiano nel 2016: più 28,71%, rispetto al 21,35% del 2015. Ma attenzione a brindare. Il segno è dovuto al risultato di un solo film, “Quo vado”, che ha totalizzato un incasso complessivo di 65,3 milioni di euro. Un record assoluto e probabilmente irripetibile. Segue un altro exploit, anche se minore, “Perfetti sconosciuti”, con un incasso di 17,3 milioni di euro. Dietro i due campioni il deserto.
Per il nostro cinema il guaio è che la maggioranza dei titoli raramente resta in sala più di due settimane, mentre resistono solo i blockbuster americani. Sapete da dove deriva questa parola? Dall’inglese “far saltare in aria i quartieri”. Il termine fu usato per la prima volta in America per indicare le bombe aeree in grado di distruggere un intero isolato (block). Mi chiedo se in tempi di trumpismo dilagante usare un termine meno bellicoso non sarebbe più salutare. Commentando i dati, l’ex ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, eletto da poco presidente dell’Anica (l’industria audiovisiva), ha dichiarato che per migliorare occorrerebbe prima di tutto “superare la stagionalità”: da noi nel periodo maggio-settembre gli incassi scendono in misura esponenziale, mentre in altri paesi crescono anche più che a Natale. Convincere il pubblico italiano a lasciare il lettino al mare per le poltrone del cinema sarà impresa ardua. Dal canto suo, l’attuale ministro Dario Franceschini si è dichiarato soddisfatto: “gli italiani stanno tornando al cinema e l’aumento del numero degli spettatori in sala è un’ulteriore conferma della crescita dei consumi culturali nel nostro Paese: dal cinema al teatro, dai musei all’acquisto dei libri”. Non vorrei che ai ministri venissero forniti dati edulcorati, se è vero quanto si legge nel Rapporto annuale dell’Associazione Italiana Editori, ovvero che il 38% dei nostri “dirigenti, imprenditori e liberi professionisti” si vanta di non aver letto neppure un libro. Sarebbe questa la nostra classe dirigente? Lo stesso quesito vale per i nostri produttori cinematografici e televisivi: chi sono, da dove arrivano, a cosa mirano?
Personalmente andrei cauto, rispetto al generale entusiasmo da parte dei nostri imprenditori (qualcuno li ha definiti in prevalenza “prenditori”) in vista della nuova legge varata da poco da Franceschini. Intanto i dati vanno interpretati. Vedi le recenti elezioni americane. Chi ha preso più voti? La Clinton ne ha ottenuti circa 3 milioni più di Trump. E’ una democrazia quella dove chi vince perde, grazie a un sistema elettorale costruito in favore dei grandi elettori? Allo stesso modo possiamo brindare a un’industria dove solo un pugno di film porta a casa un risultato, a fronte di un esercito di titoli (nel 2016 ne abbiamo prodotti ben 208!), la cui maggioranza esce in sala per ottenere i finanziamenti pubblici e di cui solo 3 si piazzano tra i maggiori 20 incassi? Ha ragione il direttore del Mibact Nicola Borrelli, quando afferma che il nostro “è comunque il risultato peggiore tra i Paesi europei”. I dati tacciono quanto alla qualità del prodotto. I film che allietano le platee sono per lo più commedie. Troppe di livello scadente, spesso ancora a base di meteorismo e turpiloquio, disconosciute persino dal patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis, che pure le ha inventate e ora si è pentito. Siegfried Kracauer, che analizzando il cinema tedesco aveva previsto il nazismo, scriveva che il cinema è lo specchio della società.
Da ministro, oltre a commentare i dati, mi chiederei quale idea di paese sta dietro al nostro cinema. Va bene che i film devono anche divertire. Ma a quale prezzo? Ci dice niente che se vai in un liceo e nomini Federico Fellini, non un ragazzo alza la mano per dire chi è? Una platea di giovani allenati da una mediocrità dilagante produce il peggio degli spettatori europei, questo dicono le indagini. Non lamentiamoci poi se un film come “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è lodato nel mondo, ma nelle nostre sale langue. Sono le nuove generazioni alle quali l’industria dovrebbe guardare: quegli stessi giovani che trovano le scuole senza insegnanti motivati e sottopagati. I quali, finita l’università, aspirano solo ad andarsene. E di cui nessuno si preoccupa. Salvo far dire a un ministro in carica che i giovani è meglio si levino dalle palle. Levarsi lui, no?
Roberto Faenza
(pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 26 gennaio)