Cinema e psiche | Le multiformi immagini dell’anima

Inauguriamo questa settimana un angolo dedicato alle sottili relazioni tra cinema e psiche, intesa come le variopinta gamma di sentimenti ed emozioni e la sua rappresentazione visiva che dai primi del novecento ci fa sognare, arrabbiare e sperare con fiducia in un domani migliore.
Ormai troviamo un po’ dappertutto riferimenti alla psicologia e all’inconscio, questo scrigno segreto dell’anima depositario di ricordi, desideri, paure e istinti inconfessabili che, dalla sua teorizzazione ad opera di Sigmund Freud, ha attribuito una prospettiva diversa alle arti letterarie e visive.
Il cinema ha acquisito una valenza privilegiata, passando da  luogo dove un po’ di persone, per lo più sconosciute, trascorrevano un paio d’ore vedendo scorrere delle immagini su uno schermo gigante  ad occasione per l’individuo di entrare in dialogo con sé stesso,  la società,  le sue dinamiche, i suoi clichè e le sue contraddizioni.
Il cinema è un luogo sociale, un punto d’incontro dove fruire di cultura, seguire una storia che diventerà poi uno spunto di conversazione e scambio di opinioni.
Andare al cinema può servire a distrarci, divertirci e anche rassicurarci: una storia d’amore a lieto fine, una rischiosa avventura che si conclude bene, aiuta le persone ad essere fiduciose che le cose della vita si sistemano sempre, che non siamo soli nell’universo e che alla fine il bene trionfa sul male.
E’ un modo per darci sicurezza ed esorcizzare, anche se per poche ore, i fantasmi delle nostre quotidianità.
Lo spettatore ritrova nel film situazioni ed emozioni che conosce, magari con soluzioni diverse da quelle che si aspetta; dialoghi ed azioni possono così diventare nuovi percorsi da battere, che  potrà scegliere di vivere, arricchendosi e facendo evolvere in questo modo la sua identità.
La prima trilogia di questa rubrica verrà dedicata al disagio psichico attraverso la narrazione e l’analisi di tre film: “A beautiful mind” di Ron Howard (Stati Uniti, 2001), “Un angelo alla mia tavola” di Jane Campion (Nuova Zelanda, 1990) e “Shine” di Scott Hicks (Australia, 1996).
Sono storie di difficoltà relazionali, ossessioni, conflitti con le figure genitoriali e, nel caso del film di Ron Howard, di malattia mentale.
Il cinema e la letteratura fantasy hanno spesso affrontato il tema dell’ombra, della doppia identità, in capolavori come Dr. Jekyll e Mr. Hide, American Psycho e il più recente esempio tratto da “Il Signore degli Anelli”, il personaggio di Gollum dove la sua vera personalità (Smagol) viene sopraffatta con prepotenza dall’ombra (Gollum).
L’ombra è la somma di tutte quelle caratteristiche che l’uomo vuole nascondere di sé e diventa tanto più minacciosa quanto più non la si accetta. Ma così facendo l’ombra si impossessa prepotentemente dell’anima dell’individuo e aumenta la sua forza sino a esplodere con violenza.
Il cinema induce un’azione catartica (da katarsi=purificazione) nelle persone e nelle masse, portando a galla paure, inquietudini ed emozioni nascoste, determinando una presa di coscienza  e spesso aiutare le persone a  risolverle.
La narrazione cinematografica esprime, rielabora e rappresenta pensieri e sentimenti “raccontati” a parole e immagini ed è in questo molto simile al lavoro analitico, aiutando ad elaborare ed acquisire consapevolezza sulla sofferenza  e la morte, i nuovi tabù della società moderna.

Patrizia Ruscio