buco nero nel quale prima o poi si è risucchiati. Militari pronti al combattimento, elicotteri, un aereo della TWA, e un soldato turbato con il sigaro in bocca, affollano una striscia colorata che interrompe l’oscurità della cornice: è un album, una galleria di immagini stampate. La riproduzione della scena di una guerra ormai lontana nel tempo divisa in quadri isolati per una serie di figurine simili a quelle collezionate dai bambini. Eppure due vistosi particolari suggeriscono una prospettiva tutt’altro che ludica: il nitore dei colori non ha vitalità e l’espressione cupa in primo piano di chi è angosciato da quello che ha visto o che vedrà, trauma che sarà costretto a rimuovere per sopravvivere. Il titolo- anche di un romanzo a disegni- in azzurro pastello offre allo spettatore informazione più precise sull’episodio evocato: Bashir Germayei era il Presidente del Libano assassinato e per reazione i falangisti cristiano libanesi nel 1982 massacrarono a Sabra e Chatila inermi rifugiati palestinesi. Folman, giovanissimo, fu testimone della strage, ma non ha inteso trasformare l’ esperienza in un documentario: il suo lungometraggio sarà infatti un valzer e senza dubbio la polisemia della parola colpisce, riprendendo l’ossimoro cromatico della locandina fra il nero dello sfondo e il celeste cielo della scritta: è la danza macabra del soldato con la mitragliatrice, è l’onda emotiva dei ricordi, riprodotta dal linguaggio e dalla stile del film, è l’eco di un senso di colpa incancellabile.