L’angolo di Michele Anselmi

Lo dico subito, così mi tolgo il pensiero. I gemelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio, romani, classe 1988, poeti, fotografi e autori di acclamati film come “Favolacce”, per me rappresentano una specie di equivoco cinematografico. Sia come registi, sia come sceneggiatori. Ma almeno nelle loro regie si respira la ricerca di uno stile, forse più fotografico che di sostanza; è nella scrittura per altri che emerge invece, parere del tutto personale, una notevole inconsistenza drammaturgica.
Vedere per credere “Educazione fisica”, il film di Stefano Cipani da giovedì 16 marzo nelle sale con 01-Raicinema. Alla base c’è una pièce teatrale di Giorgio Scianna scritta nel 2011 e l’anno dopo portata in scena da Veronica Cruciani al Teatro India. Bastava, volendo trarne un film girato in un unico luogo con attori noti, riprendere e rispettare quel testo originario; invece la sceneggiatura dei fratelli D’Innocenzo aumenta a cinque i personaggi, trasporta a Roma la vicenda in origine di sapore milanese, nel tentativo di rendere verosimile sul grande schermo, quasi “thriller”, ciò che a teatro può restare sul terreno di una non realistica allegoria morale.
Ore 18, periferica scuola “Enrico Fermi”. Quattro genitori sono convocati dalla preside per comunicazioni urgenti. L’incontro è nella sgarrupata e rugginosa palestra, frequentata da alcuni di essi quand’erano ragazzini. Claudio Santamaria è Franco, un immobiliarista tronfio e avido, da tempo single; Raffaella Rea è Carmen, bella, infelicemente sposata e amante di Franco; Sergio Rubini e Angela Finocchiaro sono Aldo e Rossella, piccola borghesia, lui addetto al “triage” in ospedale, lei casalinga. Poi c’è Giovanna Mezzogiorno, ovvero la preside, madre di due gemelli, abbigliata con una strana mantella verde. Perché sono lì? I loro figli, tutti attorno ai dodici anni, proprio in quella palestra hanno stuprato per ben due volte una compagna di classe, esiste pure un video a scanso di equivoci.
Naturalmente i quattro respingono quanto spiega loro la preside. La prendono per matta, un po’ la minacciano e un po’ la blandiscono, le offrono addirittura dei soldi affinché stia zitta oltre che per tacitare la vittima; infine accade qualcosa di tragico, inatteso, destinato a rendere la situazione ancora più incandescente sul piano morale. Fuori, nel parcheggio, i tre figli giocano a pallone: quanto è successo, per loro, era solo “educazione fisica”…
Eviterei di citare l’irraggiungibile “Carnage” di Roman Polanski, semmai siamo più dalle parti di un film di Ivano De Matteo del 2014, “I nostri ragazzi”, anch’esso tratto da un testo teatrale, lì olandese, dove due coppie di genitori, di diverse cultura, estrazione sociale e convinzioni politiche, si ritrovavano a fare i conti, a cena, con un misfatto orribile commesso dai loro figli.
Insomma avete capito: la situazione claustrofobica (tutta la palestra è stata ricostruita nello studio 8 di Cinecittà) come spunto per far emergere meschinità, ipocrisie, viltà, spirito di branco dei presenti, in una sorta di inciprignito gioco al massacro teso a escogitare il male minore e coprire le malefatte dei figli. In fondo poco più di “una ragazzata”.
Nonostante la fotografia di Fabio Cianchetti, il montaggio di Jacopo Quadri e l’uso esornativo di “Dance Me to the End of Love” di Leonard Cohen, il film declama ma non turba, grida ma non convince, a prescindere dalla premessa poco plausibile: perché mai la preside convoca i genitori invece di denunciare i fatti accaduti nella sua scuola? Pure i cinque attori coinvolti, di solito bravi, appaiono a disagio nel recitare quelle battute, molto sgranando gli occhi, dando sulla voce, forzando la gestualità. Le parole contano, in un film così: per questo sarebbe auspicabile che fossero quelle giuste.

Michele Anselmi