L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Avrà pure votato e sostenuto Trump, parlato di “pussy generation” e recitato brutti sketch contro Obama. Detto questo, a 86 anni Clint Eastwood mostra di avere ancora parecchie cartucce artistiche da sparare, tanto risulta fresco, appassionante e ben congegnato il suo “Sully”, nelle sale dal 1° dicembre con Warner Bros, a due anni dal potente “American Sniper”.
«Tutto è senza precedenti, finché non avviene la prima volta» dice una battuta del dialogo, e forse senza volerlo riassume perfettamente il senso del film e della storia. Storia verissima, come forse sapete.
Sully è il soprannome di Chesley Sullenberger, il capitano del volo Usa Airways 1549 che il 15 gennaio 2009 riuscì a far ammarare il suo aereo nel bel mezzo del fiume Hudson. Uno stormo d’uccelli aveva messo fuori uso i due motori a soli 850 metri d’altezza, impossibile virare verso l’aeroporto La Guardia per un atterraggio d’emergenza: con sangue freddo e lucida determinazione, Sully e il suo co-pilota Jeff Skiles improvvisarono quel “miracolo sull’Hudson”, riuscendo a salvare tutti, 155 persone tra passeggeri ed equipaggio.
Un tipico “american hero”, sia pure con pancetta, baffi e capelli bianchi, insomma un po’ l’altra faccia del pilota alcolizzato e vizioso di “Flight” incarnato nel 2012 da Denzel Washington; e tuttavia, anche di fronte a quell’impresa strabiliante mai riuscita prima, l’ammirato “Sully” finì sul banco degli imputati, oggetto di una serrata inchiesta del National Transportation Safety Board (Ntsb) che avrebbe potuto rovinargli reputazione e carriera.
Racchiuso nella misura aurea di 95 minuti, una rarità di questi tempi, “Sully” non è film agiografico o celebrativo, benché desunto dal libro “Highest Duty” scritto dallo stesso pilota. Tutto sembra combinarsi armoniosamente: la sceneggiatura di Todd Kormanicki, la regia sorvegliata e mai retorica di Eastwood, gli effetti speciali realistici, la prova degli interpreti ingaggiati, tutti perfetti, a partire da due protagonisti, Tom Hanks e Aaron Eckhart, nei panni dei due piloti, più Laura Linney che fa la moglie Lorraine.
Poi, naturalmente, bisogna riconoscere che la realtà a volte è più sorprendente, “cinematografica”, del cinema stesso. Sully ebbe a disposizione solo 208 secondi per prendere la decisione giusta e agire di conseguenza, contro le indicazioni da terra e tutte le convenzioni. Improvvisò disobbedendo, grazie a Dio, e anche per questo l’inchiesta fu così incalzante, nonostante il buon esito dell’incidente e la riconoscenza degli scampati.
Il film, da questo punto di vista, sfodera una struttura complessa, da andirivieni temporale, con elementi onirici e memorie giovanili, in modo da ispessire la sfida, anche psicologica, alla quale viene sottoposto il pilota: da un lato celebrato come un eroe, ospitato in tv da David Letterman, ringraziato per strada o nei bar; dall’altro sospettato di aver agito da irresponsabile, addirittura mentendo sull’avaria di uno dei due motori.
Tranquilli: finisce bene, e occhio ai titoli di coda (non alzatevi subito). Il pubblico americano ha mostrato di gradire, facendo incassare al film quasi 130 milioni di dollari sul mercato interno, ma “Sully” ha un respiro universale, perché la storia, pur aderendo scrupolosamente alla realtà dei fatti, maneggia elementi archetipici: audacia, responsabilità, intraprendenza, velocità, dirittura morale. «Abbiamo solo fatto il nostro lavoro» dice Sully al suo amico e co-pilota quando l’udienza decisiva sembra mettersi male. Tutto squisitamente americano, vero. D’altro canto è difficile non sentirsi toccati quando uno dei personaggi rincuora il pilota ancora infreddolito dicendogli: «New York non aveva notizie così belle da anni, specie con un aereo di mezzo».

Michele Anselmi

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