Si è svolto ieri nella sede di via Salaria 113, per la seconda Settimana della Sociologia organizzata da La Sapienza e dal CoRiS, un convegno sul tema “L’Italia che cambia. Le scienze sociali e della comunicazione di fronte all’accelerazione del mutamento sociale”. In una delle sezioni s’è parlato di “Cinema come spazio in difesa dei diritti umani”. Coordinavano Roberto Faenza e Mihaela Gavrila. Ecco, sul tema e le prospettive di Cinemonitor, il sito di cinema legato all’università, il mio breve intervento di taglio personale.

L’angolo di Michele Anselmi per (su) Cinemonitor

Signore e signori,
prendiamo il caso mio. Non perché sia particolarmente interessante o emblematico, solo perché lo conosco e mi torna utile nel parlare qui oggi, in questo convegno. Dunque, faccio il giornalista da 43 anni, da circa 38 mi occupo di cinema, ho passato 24 anni a “l’Unità”, poi ho scritto su “Il Foglio”, “il Giornale”, “Il Riformista”, “Sette”, “Panorama”, “Capital”, “Ciak”, “La Lettura”, l’inserto satirico del “Fatto Quotidiano”, prima di essere gentilmente accompagnato alla porta, sul “Secolo XIX”.
Sono nato e cresciuto con (su) la carta stampata, mi sembrava di non poterne farne a meno, anche fisicamente; oggi, invece, compro un solo quotidiano al giorno, neanche tutti i giorni. Sono diventato, non per colpa mia in verità, un animale digitale, da Internet e Facebook.
Mi piace? Non tanto e non sempre. Ma devo confessare che Cinemonitor, il sito specializzato congegnato da questa autorevole casa universitaria, mi ha fatto capire negli anni tante cose. Cominciò per caso, con l’amico Marco Chiani che mi chiese di poter riprendere alcuni dei miei articoli scritti per “il Secolo XIX”; la cosa funzionò, il boss Roberto Faenza si mostrò soddisfatto, e io ci presi gusto. Al punto da farla diventare, una volta disoccupato o quasi, la mia “testata” prediletta.
Finiscono qui i riferimenti personali. E tuttavia questo percorso dice qualcosa a qualcuno. E cioè che la critica cinematografica ha avuto molto da guadagnare dalla scrittura on line, nel senso di un rapporto più immediato, veloce, anche umorale, tra l’estensore della recensione, bella o brutta che sia, e il lettore specializzato o anche occasionale.
Non è tanto una questione di “like”, che certo possono contare nell’indicare il gradimento, quanto delle possibilità offerte da un mezzo mediatico che accorcia i tempi della lettura, diciamo pure, con una parolaccia, della fruizione giornalistica.
I colleghi della mia età, o con formazione simile alla mia, per decenni non hanno avuto idea di chi leggesse i loro articoli. Ogni tanto arrivava al giornale una lettera di protesta, perlopiù di un regista arrabbiato/offeso che si preparava a togliere il saluto al critico o aveva da ridire su questo o quel dettaglio della recensione (naturalmente succedeva solo se il film andava male al botteghino, altrimenti andava bene anche la stroncatura); oppure di un lettore attento che con solerte acribia annotava una cantonata, uno sfondone, una parola sbagliata. Poco d’altro.
Diciamo pure che non si sapeva, non sapevamo, per chi si scrivesse, nella speranza di rivolgerci a un lettore medio, né troppo cinefilo né troppo disinteressato, da incuriosire o addirittura da orientare sul piano culturale (dipendeva dai giornali e dall’attitudine dell’estensore).
Oggi è tutto cambiato. Pubblico una recensione pensata e scritta per Cinemonitor e quasi subito ricevo un “feedback”, si dice così?, soprattutto se la condivido su Facebook. Ho scoperto a 63 anni di avere lettori attenti, fedeli, esigenti, pure un po’ incazzosi se mi passate il termine, che mi sollecitano addirittura la visione di questo o quel film appena uscito per sapere come la penso.
Il tutto, paradossalmente, avviene in una stagione che vede crollare gli incassi in sala, ormai scesi sotto i 100 milioni di biglietti, e ridursi tragicamente la quota di mercato dei film italiani (ma ci penserà Checco Zalone a febbraio 2019 a risollevare le sorti del cinema nazionale). Tutti parlano di film anche se poi non vanno a vederli sul grande schermo: perché mutano le piattaforme, cambiano le abitudini, varia l’attenzione, mentre anziani, adulti e giovanotti neanche “scaricano” più ma riescono a vedere quasi tutto in streaming.
La critica in questo contesto che cosa può fare? Non saprei dire. Davvero. So bene che in rete bisognerebbe scrivere secondo moduli intonati al mezzo, non come si fa sulla carta stampata, e quindi sarebbe preferibile mostrarsi sarcastici, aforistici, brevi, facili alla stroncatura o al ditirambo, leggermente fanatici, con piglio da fanzine; eppure io continuo a scrivere suppergiù nello stesso modo di quando ero giovane, a volte meglio e volte peggio, e mai come adesso, che per dirla con Alberto Arbasino non sono più “solito stronzo” ma neanche “venerato maestro”, ho la sensazione di aver un cencio di rapporto con i miei lettori, pochi o tanti che siano.
“La critica è una cosa molto comoda: si attacca con una parola, occorrono delle pagine per difendersi” pare abbia detto un giorno Voltaire. Non so se la battuta si adatti anche alla critica cinematografica, ma di sicuro i registi, gli attori, gli sceneggiatori, i distributori, gli esercenti e talvolta pure i produttori si sono convertiti all’onda digitale. Sono attenti, condividono e rilanciano, a volte spaventati dall’immediatezza dell’articolo, specie se non contiene giudizi lusinghieri, a volte esaltati dal parere “cotto e mangiato”, impensabile con i tempi dei giornali o anche dei telegiornali.
Se non fosse così il festival di Cannes non avrebbe imposto scelte draconiane, anche un po’ inutili e autoritarie, sul versante delle anteprime stampa per i critici, in modo da non mettere gli autori dei film di fronte a una possibile bocciatura prima della proiezione ufficiale di gala.
Sapete, sono cresciuto, io come tanti altri “filmofagi” ormai sessantenni, divorando, anche scopiazzando, le recensioni di Tullio Kezich, Callisto Cosulich, Morando Morandini, Ugo Casiraghi, Stefano Reggiani, Lietta Tornabuoni, Mino Argentieri, Giovanni Grazzini, solo per dirne alcuni tra quelli bravi; e mi chiedo se questi colleghi, purtroppo tutti scomparsi, oggi saprebbero misurarsi con la comunicazione rapida del cosiddetto universo social. Magari sì, pure si divertirebbero, stupiti dal giochino per certi versi esaltante, per nulla imparruccato o solenne.
Poi certo, e mi avvio alla conclusione, bisognerebbe capire che cosa può diventare Cinemonitor, soprattutto come debba essere redatto, titolato, scritto, impaginato. Qui non ho risposte facili da dare. Ciascuno dei collaboratori scrive come sa, come può e come vuole, s’intende. Raccomanderei, però, una maggiore audacia nell’affrontare alcuni argomenti in bilico tra cinema e politica; fors’anche una minore reverenza nei confronti delle istituzioni e delle cine-corporazioni.
Ma è anche vero che qualsiasi manufatto giornalistico, su carta o on line, richiede all’articolista un sforzo per farsi leggere, possibilmente oltre le prime dieci righe, in modo che il lettore non abbandoni annoiato. Questo vale per le recensioni, per i commenti, per i saggi, per gli editoriali, anche per i “soffietti”, tanto più nell’ambiziosa prospettiva di trasformazione di Cinemonitor, in una chiave anche di allegra divulgazione culturale e di fervido dibattito civile, sulla quale stanno alacremente lavorando i prof Gavrila e Faenza.
Tutto si può fare, ma partendo da una consapevolezza di fondo, tanto più valida nell’ambito universitario, dove a volte si tende a privilegiare la sostanza rispetto alla forma. Perché anche nello scrivere, oltre che nel vivere, bisognerebbe aspirare ad essere complessi ma non complicati, semplici ma non superficiali.
Grazie per l’attenzione.

Michele Anselmi