di Francesco Sarubbo
 
C’è una scena a un certo punto del film che Salvatores avrebbe potuto utilizzare come incipit di questa storia. Il volto di una ragazza visto attraverso frames, magicamente creati con la macchina da presa che riprende un treno mentre passa ad alta velocità. Dall’altra parte Lei.
Lei che sorride, lei che è giovane, lei che ascolta la musica e fa sorrisi ammiccanti, lei che è vitaSicuramente nulla si può dire sui movimenti di macchina di Gabriele Salvatores, riesce a dominare sempre le immagini per poi liberarne il senso che ne scaturisce di volta in volta. Lo fa quasi maniacalmente e ogni volta si ha la sensazione che abbia preparato tutto dettaglio per dettaglio affinché potessi avere quella esatta sensazione/emozione. Eppure, eppure, i personaggi di Come Dio Comanda sono scollati si muovono come burattini, marionette del destino che è abbastanza insolito per come questo regista costruisce sempre i suoi personaggi. Gli ingredienti ci sono tutti: un rapporto padre e figlio viscerale e duro, una figura di contorno “quattro formaggi” – interpretato dal talentuoso Elio Germano – rimasto offeso dopo un incidente e ossessionato da Dio, una città fredda e dagli scenari cupi e il romanzo di Niccolò Ammaniti da cui il film stesso è tratto.
In questa (meta)storia, sembra volerci insegnare Salvatores, non c’è spazio per la compassione né per il pentimento e che la rabbia verso il prossimo ostile riecheggia e ci torna indietro, rimbomba frastornandoci, come negli scenari desolanti e anonimi dentro i quali si muovono gli attori. Le loro vite precarie sono sostenute soltanto da un filo invisibile, lo stesso che lega gli umani tra di loro e che è fondamentale non lasciar spezzare. Una favola nera dove il lupo e cappuccetto rosso sono perfettamente a loro agio e allora qual è il comandamento di Dio?
Fa la cosa giusta e non aver paura

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