Il genere comico, soprattutto negli anni Venti, è stato il motore d’avviamento alla grande stagione del cinema americano, che sarebbe poi sfociata nella cosiddetta “Età d’oro di Hollywood”. È infatti proprio a partire dalle schizofreniche e sincopate acrobazie dei comici che il cinema acquista una competenza linguistica prima inimmaginabile e diventa a tutti gli effetti uno strumento artistico dotato di una propria dignità. In particolare gli autori a cui bisogna guardare come imprescindibile riferimento sono Charlie Chaplin e Buster Keaton.

Questi padri del cinema incarnano in maniera opposta ma complementare l’idea di comicità. Li accomuna un senso coreografico per il movimento, che si esprime in una danza frenetica. Nel caso di Keaton sono spesso gli oggetti a mettere in moto la scena, alimentando una catena di equivoci che viene costantemente rilanciata sino ad arrivare alla risoluzione, che però non è conciliante in quanto apre a un’altra successione di equivoci (come nella celeberrima sequenza della piscina in The Cameraman). Il rapporto di Chaplin con gli oggetti invece è più demiurgico, il suo personaggio riesce con grandissima abilità a plasmare quei frammenti di realtà secondo le sue esigenze, operando spesso dei declassamenti che ci ricordano le avanguardie degli anni Venti (si veda la scena del funambolo in Il circo).

Un differente rapporto con gli oggetti (che per Krachauer sono il motore del mondo e del genere comico) si traduce in una diversa attitudine verso il mondo, più ingenua quella di Keaton, più melodrammatica e aspirante alla rivalsa del debole quella di Chaplin. Buster è sempre sopraffatto in un modo o nell’altro dai suoi oppositori, anche se alla fine riesce a cavarsela grazie alla sua abilità. I personaggi di Chaplin invece cercano sin da subito di cambiare le cose, spesso senza riuscirci, e questo è il motivo per cui la comicità di Charlot è pervasa da una vena drammatica a volte chiaramente esibita (come nel tragico Monsieur Verdoux).

Per un attore comico, poi, la costruzione di una maschera-personaggio non può che passare dal volto e anche qui registriamo senza troppe difficoltà le grandi differenze che ci sono fra i due. Buster Keaton era definito – a ragione – “stone face” proprio perché la sua comicità si caratterizza per una esaltazione frenetica del movimento, che per contrasto fa emergere la completa inespressività del suo volto, diafano e senza il minimo segno di partecipazione. Al contrario Chaplin lavora sulla costruzione, rendendo il suo volto un palinsesto su cui si inscrive un trucco molto pesante, soprattutto in corrispondenza degli occhi, vero e proprio specchio dell’anima per l’uomo drammatico che diventa il suo alter-ego.

Sono quindi molte le differenze che abbiamo brevemente enucleato in queste righe, ma è importante notare che – al di là dei particolarismi autoriali – entrambe queste esperienze recitative sono connotate da un’esaltazione assoluta del movimento come momento di riscatto e di piena affermazione di sé. Il brulicante vagare di Buster e l’armoniosa danza di Chaplin diventano la metafora di una generazione che, dopo l’esperienza traumatica della Grande Guerra, cerca di ritrovare il ritmo della propria esistenza nel movimento.

Giuseppe Previtali