L’angolo di Michele Anselmi
Doveva chiamarsi “Limbo” il nuovo film del 59enne regista messicano Alejandro G. Iñárritu, e forse sarebbe stato meglio. “BARDO, la cronaca falsa di alcune verità” suona invece più astruso, pure difficile da ricordare (c’è di mezzo un concetto buddista, pare). In concorso alla Mostra di Venezia nel settembre scorso, non si rivelò l’evento imperdibile da molti cinefili vaticinato; magari fu anche la lunghezza, 174 minuti ora ridotti a 160, a spaventare, vai a saperlo. Adesso, distribuito da Lucky Red ma prodotto da Netflix, esce nelle sale italiane: oggi, mercoledì 16 novembre, in poche copie; dal 16 dicembre sarà invece sulla piattaforma digitale, per la sofferenza di Nanni Moretti.
Schematizzando un po’, certo facendo la tara, si può dire che “BARDO, la cronaca falsa di alcune verità” sia per Iñárritu ciò che “8 ½” fu per Fellini. Un film personale, un flusso di coscienza, pensato quasi in una prospettiva psicoanalitica, denso e fluttuante, pure smodato, fumigante di ricordi, sogni e incubi, ma deciso anche a fare i conti con le feroci contraddizioni della storia messicana.
“La memoria non è veritiera, possiede soltanto convinzioni derivate dalle emozioni” teorizza il regista, che non firmava un lungometraggio dai tempi di “Revenant – Redivivo”, 2015: non saprei dire se sia proprio così. Ma certo il film rovista nel passato e presente del protagonista, parrebbe alter-ego del regista: un giornalista/documentarista, tal Silverio Gama. L’uomo vive da vent’anni a Los Angeles con la famiglia, ha appena ricevuto un prestigioso premio internazionale, ma il Messico è ancora nella sua testa e nel suo cuore: un viaggio nella sua città natale metterà in moto un tumultuoso flusso di coscienza.
Da subito il tono non è realistico, semmai onirico, anche perché Silverio vive davvero in una sorta di limbo, presente e assente allo stesso tempo. Iñárritu ama le descrizioni forti, frutto anche di visioni tra macabro e surreali: qui un neonato appena uscito dalla pancia che vuole rientrare nel ventre materno, perché solo lì si sente al sicuro (segue reintroduzione del corpicino nella partoriente e taglio di un esteso cordone ombelicale). Quel piccolo avrebbe dovuto chiamarsi Mateo, la sua esistenza durò solo un giorno, ma Silverio non è mai riuscito a elaborare il lutto, pur avendo avuto dalla moglie, dopo, due splendidi figli ora grandicelli.
Come un sonnambulo che si sdoppia, osservando sé stesso all’opera, Silverio fai conti con rovelli personali e verità più o meno ufficiali, e sullo schermo si materializzano, a volte con toni buffi, a volte con visioni di morte, la guerra ottocentesca tra Usa e Messico, la tragedia dei clandestini, la fetida stagione dei “desaparecidos” e della repressione militare, perfino lo sterminio dei indios ad opera degli spagnoli di Hernán Cortés. Poi c’è il paradosso politico: Amazon che compra dal Messico l’intera California meridionale…
Il tutto, spesso in una chiave ipertrofica e metacinematografica, tra intuizioni potenti sul piano visivo e situazioni un po’ ripetute (Darius Khondji firma la fotografia magistrale). Del resto il regista messicano di “21 grammi” e “Birdman” ama stupire, scioccare, anche mettere a disagio lo spettatore per vedere l’effetto che fa.
C’è una scena curiosa nella quale il giornalista, testa da adulto su corpo da bambino, incontra il padre morto da anni; il vecchio ricorda al figlio un criterio al quale attenersi: “Assaggia il successo, risciacqua la bocca e poi sputalo”. Non so se il cineasta parli anche di sé, ormai di casa a Hollywood, ma certo suona come una confessione apprezzabile, franca. Daniel Giménez Cacho, capelli lunghi e barbetta da intellettuale, dà corpo a Silverio, facendone un uomo tormentato e irrisolto, pure sensuale, con sulle spalle un baule di chimere e un incedere da morto che cammina.
Michele Anselmi