La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 4
Vogliamo chiamarla la rinascita di Paolo Sorrentino? Pescando nel proprio vissuto di sfortunato orfano precoce, il regista napoletano ha realizzato con “È stata la mano di Dio” un film semplice, intenso e profondo, che non “sorrentineggia”, e anzi manda in soffitta tutto quell’apparato esteriore, di forte impronta visiva e di debole sostanza espressiva, che ha contraddistinto, a mio parere, il suo cinema e le sue serie tv dopo l’Oscar meritatamente ricevuto per “La grande bellezza”.
In concorso qui alla Mostra, poi in sala dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre, il film deve il suo titolo al celebre fallo di mano commesso da Diego Maradona nel 1986 durante una storica partita tra Argentina e Inghilterra; e insieme a una battuta del copione, laddove un vecchio intellettuale fissato col calcio e deluso da tutto si rivolge così al giovane protagonista: “È stato lui che t’ha salvato, è stata la mano di Dio”. Del resto, una frase del goleador che regalò lo scudetto al Napoli campeggia, a mo’ di esergo, prima che tutto cominci: “Ho fatto quello che ho potuto, ma penso di non essere andato così male”.
Vale anche per Sorrentino, naturalmente: a 51 anni e a quattro lustri esatti dal suo esordio con “L’uomo in più”, è tornato a Napoli per ambientarvi interamente un cineromanzo di formazione, che riesce ad essere, allo stesso tempo, autobiografico e universale, immerso nelle viscere di quella città unica e capace di parlare a tutti, anche a chi non afferra il dialetto.
Non ci sono suore nane che fumano, novizie in tanga, pecore che stramazzano sotto l’aria condizionata, pontefici sensuali, aforismi al vetriolo, feste dionisiache, neon magnetici e politici gaudenti in “È stata la mano di Dio”. Sorrentino, come si diceva, mette via tutto quell’armamentario estetizzante, tranne forse che nel prologo. Una giovane donna dai seni prosperosi, sotto il sottile abito bianco che fa immaginare tutto, viene invitata da un signore d’altri tempi, modi cortesi e occhi cerulei, il quale dice d’essere San Gennaro. Da tutti desiderata, lei non riesce a restare incinta del marito, ma forse l’apparizione di un “monaciello”, leggendario spiritello del folclore locale, potrà aiutarla a diventare madre. E un altro “monaciello” si affaccia nell’epilogo, a chiudere il cerchio, sorridente e riccioluto come Maradona: e sarà un segno di buon augurio per chi sta cercando di coronare un altro sogno.
Non ci vuole molto a capire che Fabio Schisa, diciassettenne introverso e gentile, ancora vergine, con le cuffie del walkman sempre nelle orecchie, incarna Sorrentino da giovane. Siamo tra il 1984 e il 1986, appunto nel biennio che vide le mirabolanti gesta di Maradona a Napoli; ma l’arrivo del calciatore, notoriamente venerato dal regista, sembra lo spunto per parlare d’altro, di una certa Napoli piccolo borghese che gravita attorno alla famiglia Schisa.
Il ritratto è corale e colorito, tra aneddoti buffi e bozzetti grotteschi, pranzi campestri e nudi di donna, anche se affiora presto il senso di una minaccia, poi tragedia vera, che muterà definitivamente la vita del giovanotto, lasciandogli intravvedere un possibile domani. “La realtà non mi piace più, è scadente. Ecco perché voglio fare il cinema” scandisce Fabio, e naturalmente è Sorrentino a parlare.
Lungo due ore e dieci minuti, scandito da una narrazione classica, sobria, non compiaciuta sul piano fotografico, tesa a condividere con lo spettatore il senso dei ricordi e la cognizione del dolore, “È stata la mano di Dio” è anche un film sul cinema, trapunto quindi di riferimenti affettuosi. Si vede spesso la videocassetta di “C’era una volta in America”, si sfotticchia un po’ Zeffirelli alle prese con “Callas Forever”, si sente la vocina di Fellini mentre fa i provini in città; soprattutto, nel dialogo serrato in sottofinale, viene squadernato lo spirito indocile del regista Antonio Capuano, oggi 80 enne, col quale nel 1998 lo stesso Sorrentino avrebbe scritto il film a episodi “Polvere di Napoli”. Un po’ si “fellineggia”, a tratti si respira qualcosa del mai realizzato “Moraldo in città” a lungo meditato dal gran riminese; ma dentro una cifra, tra poetica e antropologica, che forse deve qualcosa a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, omaggia perfino il Pino Daniele di “Napule è” e spesso diverte, perché non cinica o tutta esornativa. Fulminante, trovo, anche l’apparizione notturna nella piazzetta di Capri del miliardario Adnan Khashoggi insieme a una sventolona in minigonna,
Il ricco cast si mette bene a disposizione del clima generale di un film che invita alla meditazione sulla natura umana e le strettoie dell’esistenza: il giovane Filippo Scotti incarna Fabio, Toni Servillo e Teresa Saponangelo sono i genitori, Luisa Ranieri la “scandalosa” zia Patrizia, Betty Pedrazzi la baronessa del piano di sopra, poi ci sono Enzo Decaro, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Lino Musella e tanti altri.
Dimenticavo. Sapete che rumore fa uno scafo offshore che solca il mare a 200 all’ora? “Tuff… tuff… tuff…” (parola di contrabbandiere).
Michele Anselmi