L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Michael Mann gode di un culto cinefilo indiscutibile, duro e puro? Sì, c’è del vero. Come capita anche per il guru (diciamo para-guru) Terrence Malick. Solo che Mann, regista di film per molti versi memorabili come “Manhunter – Frammenti di un omicidio”, “L’ultimo dei Mohicani” o “Heat”, non si atteggia a filosofo e non disegna cosmogonie, continua a muoversi attorno ai generi del cinema popolare, spesso d’azione, pur nutrendoli con una cifra estetica originale; mentre Malick, specie dopo “Tree of Life”, distilla profezie e ossessioni personali, inseguendo un cinema sperimentale, destrutturato, che gli stessi festival presentano ormai con stanca rassegnazione.
Purtroppo si vede con una certa rassegnazione anche il nuovo cyber-thriller di Michael Mann, intitolato “Blackhat”, titolo mutuato dai film western, a indicare i cattivi col cappello nero, anche se qui si parla di super crimini informatici. Era dal 2009, l’anno del gangster movie “Nemico pubblico” su John Dillinger con Johnny Depp, che il regista oggi 72enne non firmava un film, e magari “Blackhat” arriva fuori tempo massimo, quasi fosse costruito su un computer già fuori produzione, azzerato da nuove tecnologie. Infatti in patria non l’ha visto nessuno, ha incassato poco più di 8 milioni di dollari, essendo costato una settantina; e in molti Paesi, come ad esempio in Australia, che poi è la terra d’origine del protagonista Chris Hemsworth, giù martellante Thor, uscirà solo in dvd, per limitare i costi.
Non che sia brutto, ma abbastanza noioso sì: 135 minuti sono troppi, e spesso hai la sensazione che Mann, mettendo in scena il copione di Morgan Davis Foehl, non sia in grado di estrarre di più dall’intreccio, che pure salta da un posto all’altro, freneticamente, partendo dalla Cina, per poi volare a Los Angeles, Hong Kong, Giacarta e infine Malesia. Magari Hemsworth, che pure ha il fisico del ruolo, sin troppo, con tutti quei muscoli scolpiti, fatica un po’ a diventare il protagonista giusto della storia, nei panni essenziali di un pirata informatico sulla via della redenzione: tal Nick Hathaway.
Condannato a 15 anni di prigione per aver rubato qualcosa come 46 milioni di dollari clonando carte di credito, il giovanotto è un mago del computer e dintorni. Gli restano da scontare 9 anni quando un amico cinese d’università, tornato a Pechino e diventato nel frattempo un poliziotto esperto in crimini informatici, deve indagare su un disastro accaduto in una centrale nucleare. Un insidioso “malware” partito da un computer ha provocato l’incidente mortale, con danni enormi; e subito dopo un altro virus ha fatto artificialmente crescere del 250 per cento il costo della soia sui mercati internazionali, con un guadagno di 78 milioni di dollari in pochi minuti. Chi sta operando nell’ombra e quale sarà la prossima mossa?
Il copione è piuttosto rozzo, basico, sfodera frasi stentoree del tipo «Avremo tempo per piangere, ora dobbiamo solo sopravvivere» oppure «Non credo che vedrò la luce alla fine del tunnel», e di sicuro Mann deve aver capito, girando in Cina e dintorni, che qualcosa non funzionava nel mix drammaturgico, pur accadendone di tutti i colori. Capita infatti che il giovane poliziotto cinese riesca a far liberare il galeotto biondo, il quale, scortato da due agenti dell’Fbi che gli diventano amici, si invaghisce, riamato, proprio della sorella di Chen, anch’ella genio informatico. Ma la caccia al cyber-pirata non sarà facile: seguire conti milionari che portano in banche remote e bypassare codici segreti sono scherzetti per il fustone Hathaway, ma poi si comincia a sparare e il gioco si fa duro, mentre si affaccia lo spettro di un nuovo 11 Settembre.
Fotografia digitale che più suggestiva non si può , musiche sempre sospese e d’atmosfera (anche se il compositore Harry Gregson Williams ha polemizzato col regista, dissociandosi), inseguimenti e sparatorie filmati da prospettive non banali. “Blackhat” gioca col genere d’azione o poliziesco cercando, come sempre, una perfezione estetica che trascenda la materia di cui si parla, un impatto visivo potente, capace di riscattare una certa usura hollywoodiana legata alle cene d’azione. Mann è un maestro in questo: basterebbe ricordare l’impressionante conflitto a fuoco di “Heat”, dopo la rapina finita male. Ma lì c’erano Robert De Niro e Al Pacino, l’uno rapinatore stanco e l’altro sbirro nevrotico, ad affrontarsi a distanza, fino allo show-down malinconico sulla pista dell’aeroporto. Vale anche, in chiave diversa, per “Insider”, dove il duetto tra Russell Crowe e ancora Pacino innervava la storia di denuncia sulle malefatte delle multinazionali del tabacco.
In “Blackhat” invece c’è Hemsworth, che più di tanto non può fare, anche se lo circondano di attori mica male, come Viola Davis, Ritchie Coster o i cinesi Wei Tang e Leehonn Wang. L’abilità tecnica di Mann, a partire dal lambiccato e suggestivo incipit che evoca la diffusione veloce del virus informatico lungo la rete che dovrebbe essere protetta, si vede tutta. Ma poi vedi il film e ogni tanto, tra un’esplosione e l’altra, ci si appisola in attesa di scoprire chi muove i fili di tutto. Però la storia d’amore è bella, vagamente alla Wong Kar-wai…
Michele Anselmi