L’angolo di Michele Anselmi

Sentiamo dire, a un certo punto: “Al buio siamo tutte creature di Dio”. Ecco spiegato il titolo di questo film fosco e livido, ambientato in un paesino marinaro d’Irlanda nel quale il tempo sembra essersi fermato.
Ideato dalla produttrice Fodhla Cronin O’Reilly (originaria del Kerry, regione dell’Irlanda), sceneggiato da Shane Crowley e affidato alle registe americane Saela Davis e Anna Rose Holmer, “Creature di Dio” esce giovedì 4 maggio nelle sale con Academy Two. Se vi piacciono le storie con toni da tragedia greca ambientate in un mondo proletario, in questo caso pescatori e operaie, questo è il film per voi.
Avvertenza: bisogna sapere, ed è quanto mostra la primissima sequenza del film, che per antica tradizione o forse scaramanzia molti pescatori irlandesi non sanno nuotare. Vai a sapere perché. Ma siccome tutto torna di solito nei film, sicché vedrete che…
Irlanda, villaggio di pescatori funestato da tragedie marinare. La cinquantenne Aileen lavora in una fabbrica che pulisce e inscatola le ostriche. Impegnata a occuparsi del marito, del suocero e del piccolino nato dalla figlia Erin, Aileen rinasce quando il figlio Brian torna a casa dopo un lungo soggiorno in Australia.
“Abbandonare una terra solo per scoprire che non te libererai mai” medita il giovanotto, un po’ inquieto, sicuro di poter di nuovo portarsi a letto l’ex fidanzata Sarah. Ma non è così. E quando Brian sarà accusato di aver stuprato la giovane donna, anch’ella operaia nella fabbrica ittica, per Aileen, già messa alla prova dal figlio a causa di un furto commesso per compiacerlo, si porrà un distruttivo problema di coscienza.
Maschilismo inveterato, uomini spesso ubriachi, poveri contro poveri, il fungo delle ostriche che spaventa tutti, debiti insostenibili, matrimoni infelici, il senso di comunità roso dal sospetto… Avrete capito che cosa rende così pericolose le acque che bagnano quel paesino così tipico, anche archetipico. Emily Watson è come sempre brava nell’incarnare la protagonista, una moderna Medea, così “vera” nel viso, nel corpo, nella cadenza (bisognerebbe vederlo in inglese con sottotitoli), mentre il figlio prediletto è incarnato da Paul Mescal e Sarah da Aisling Franciosi. Fotografia a luce naturale, qualche compiacimento di troppo, forse, sui tempi morti e i panorami.
La morale? Un po’ la stessa di “Gli spiriti dell’isola”, pur all’interno di una drammaturgia molto meno fantasiosa e profonda: se non vuoi affogare, letteralmente e metaforicamente, bisogna andarsene da quel mondo chiuso, atavico, forse senza speranza, popolato di fantasmi, ormai avvelenato. Meglio provare a rifarsi una vita altrove, come mostra la lunga e insistenza sequenza prima dei titoli di coda.

Michele Anselmi