“Dicono che tutto è scritto e non si può cambiare niente. Ma io voglio cambiare tutto”. Nonostante sia Momò a dar voce a queste parole nel film “La vita davanti a sé”, previsto al cinema, ma proposto poi su Netflix il 13 novembre, esse rispecchiano anche la personalità di Madame Rosa. L’identità dei personaggi si fa attendere, infatti, anche se Momò compare dalla prima scena, sarà solo nel minuto 5:05 che, rivolgendosi allo spettatore, si dichiarerà: Mohamed, detto Momò, dodici anni, orfano, affidato al dottor Coen. È proprio tramite il bambino che ci si avvicina a Madame Rosa, interpretata dall’intramontabile Sophia Loren che, dopo il 2014, torna come protagonista nella pellicola di suo figlio Edoardo Ponti. Il primo approccio con la donna è di spalle, non mostra subito il volto, ma i suoi boccoli color dell’argento, un abito azzurro e un portamento di classe. Momò dà voce alla storia di Madame Rosa, o meglio, solo in parte perché ci sono cose che scoprirà insieme allo spettatore nel corso della narrazione: Madame Rosa è una donna anziana, le cui rughe testimoniano il passare del tempo e il dolore che ne ha comportato, una ex prostituta che sopravvive occupandosi dei figli di altre prostitute. La sua casa viene chiamata da sempre chiamata “Il rifugio”, un nome non casuale come potrebbe sembrare, poiché il termine rifugio ha un significato ben preciso per la donna. I due protagonisti non hanno età, origini o cultura in comune, ma hanno qualcosa di più che li unisce: il temperamento modellato sulle esperienze di vita.

Il solo fatto che la musica prevalente nelle scene sia malinconica, tra cui il singolo “Io sì” della Pausini, preannuncia il valore e la profondità delle storie; colui che osserva deve andare oltre il carattere irriverente e a volte presuntuoso di Momò, deve guardare più in là del semplice interesse economico di Madame Rosa. Lo spettatore deve attendere di conoscere la verità. Gli indizi lasciati sono molti e facilmente intuibili: numeri sulla pelle come un marchio, un seminterrato nascosto, momenti di estraniazione dalla realtà, tutto questo conduce ad una sola e atroce verità: “Ad Aushwitz mi nascondevo sotto una baracca. Era il mio rifugio, come qua sotto. Avevo la tua età. A te questo nome non dice niente, meglio così”, sospira Madame Rosa ricordando che lei è una dei sopravvissuti allo sterminio degli ebrei e proprio una delle ambientazioni del film è il ghetto ebraico di Trani. Madame Rosa è il timore che ha segnato profondamente la sua vita sin da bambina, è la ricerca spasmodica di un rifugio in cui sentirsi protetta; Momò rappresenta invece la paura dell’abbandono, la sua corazza respinge tutto ciò che potrebbe proteggerlo e lasciarlo allo stesso tempo. Cosa li tiene uniti dunque? Un primo piano. Spalla contro spalla. Passato e futuro si ritrovano nel presente e ingannano il destino firmando un patto con l’intreccio delle loro mani, per far sì che le loro anime, dopo essersi a lungo cercate, possano finalmente proteggersi.

Cristina Quattrociocchi