Woody Allen faceva il «pesce in barile» con la lobby ebraica, Fellini era «un genio – un po’ cretino», e a Cinecittà per filmare di notte bisognava attaccare i fari alla batteria delle macchine («la luce costava troppo…»). A raccontarlo è Simone Guidi di Bagno, regista e scrittore di documentari per le Nazioni Unite. Pur essendo cresciuto nelle case di produzione, il destino di Simone Guidi di Bagno era altro dal cinema, a girare nel deserto del Chad con dodici valigie di pellicole 16 mm o con l’operatore e il fonico nella frontline di Manerplaw, battaglia cruciale per le sorti dei ribelli in Birmania. Se gli chiedi cosa fa, Simone ti risponde con la Bohème: «cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo!». Nel cinema ha lavorato con Antonioni, Lizzani… «non me ne fregava molto». Vestiva i panni di segretario di produzione per Studio 5 a Cinecittà, e dopo, da documentarista, fu scelto da un entusiasta Woody Allen per interpretare la voce narrante in uno dei suoi film più noti, il mockumentary Zelig. Da qui è nato lo spunto per quest’intervista: quattro frasi del film, quattro aforismi alleniani, per quattro domande sulla sua vita.

All’inizio del film, la tua voce recita: “i medici ascoltano la dottoressa, che definisce Zelig un “camaleonte umano”. Come le lucertole, dotate dalla natura di un meraviglioso sistema di protezione che gli permette di cambiare colore e confondersi con l’ambiente circostante, anche Zelig si protegge trasformandosi in chiunque gli sia vicino”. Ti è mai capitato di trasformarti per un ambiente o una persona?

Sempre, nel mio lavoro. All’ONU, inizialmente i miei documentari non andavano bene a nessuno: poi hanno cominciato a vincere i premi. Da quel momento mi hanno lasciato fare. Essere camaleontico significava immedesimarmi, filmare con discrezione, mostrare la natura del popolo che raccontavo.
Immagina la Namibia, colonia tedesca. Era l’89 e a novembre ci sarebbero state le prime elezioni democratiche per l’indipendenza del paese. Che cosa succede? Per l’anniversario della nascita di Hitler, a Swakopmund spuntano ovunque bandiere naziste. Andammo dal sindaco e gli suggerimmo di farle rimuovere: la stampa europea avrebbe dipinto un intero paese come nazista a causa degli ex-colonialisti bianchi. Da “camaleonte”, ho cercato di far emergere la natura della Namibia, dove i bianchi erano solo l’8% della popolazione e possedevano tutto. In Uganda, invece, ho seguito la storia di una donna che, come tutti gli anziani del paese, aveva decine di bambini a carico: la generazione di mezzo era stata interamente decimata dall’AIDS. Sai cosa mi ha chiesto? Che nel documentario l’AIDS non venisse neppure nominato: se ne vergognavano tutti. In quel caso ho cercato di tenere conto del suo bisogno, senza mistificare la storia del paese.

Torniamo alla giovinezza. Seconda citazione. “Sul letto di morte, Morris Zelig dice al figlio che la vita è un incubo di dolore senza alcun senso, e l’unico consiglio che gli dà è: conservare bottiglie vuote”. Tuo padre ti ha lasciato qualche consiglio più utile?

Mio padre mi ha insegnato a vivere. Non a caso, non mi voleva nel cinema: mi voleva notaio. Me lo vedi, il mantello del notaio? [Simone indossa una camicia aperta fino all’ombelico, in mezzo si scorge un ciondolo con il Tao]. Mio padre ha avuto grandi delusioni dal cinema: Fellini per primo. Non aveva intelligenza nei rapporti professionali. Prendi Roma, per esempio: gli fece spendere milioni per il trono del cardinale – doveva essere fatto a mano! –, e poi lo coprì quasi tutto col mantello. Roma è stato l’ultimo film di mio padre. E anch’io non sono rimasto a lungo nel giro, ci lavoravo solo per alzare qualche soldino. Cinecittà era uno spasso: ricordo la guardiola che mi fermò per chiedermi se venivo dal Centro Sperimentale, e che al mio “No!” mi diede il benvenuto. Si lavorava alla romana. Se l’ultima scena di un western doveva essere in una stalla e l’unica stanza disponibile era allestita da appartamentino dei Parioli di una commedia all’italiana, bisognava arrangiarsi. Trasportammo la paglia, avena per cavalli, da Tor di Quinto a Cinecittà riempiendo una 500. Si facevano 250 film italiani per il prezzo di uno americano…

Parliamo ancora dei primi tempi, quando ancora eri a Roma: ecco la terza citazione. “Litigano ferocemente, e si scopre Martinez nascosto nell’armadio. Geist tira fuori la pistola, e gli spara. Punta l’arma contro la sorellastra di Zelig e l’ammazza, dopo di che si toglie la vita. In un’orgia di gelosia e violenza, la vita di Leonard Zelig è capovolta”. Ti sei mai trovato in un’orgia di gelosia e violenza?

La gelosia noi non la provavamo nemmeno: non eravamo condizionati dal rapporto a due. Vivevamo in dieci amici, in un appartamento nel centro di Roma. Tutto quello che era “sexy” ci attirava: volevamo divertirci, fare sesso, provare le droghe, divertirci. Nell’aria c’era leggerezza, non violenza. Noi eravamo i buoni: non facevamo male a nessuno, eravamo educati, se c’era da mettere la cravatta mettevamo la cravatta. Erano tempi “scarcinati”: chiusero il Number One, il famoso club di Roma, e finì dentro molta gente. Ma la mia era una generazione fortunata.

Finiamo in grande. In una delle ultime battute del film reciti: “Zelig prende i comandi dell’aereo. Interpretando il ruolo di pilota, lotta per controllare disperatamente il velivolo. Eudora Fletcher ha perso i sensi; Zelig, che non aveva mai volato in vita sua, non solo sfugge ai tedeschi, ma stabilisce un nuovo record: la traversata dell’Atlantico a testa in giù”. Qual è l’impresa più audace e di cui vai più fiero?

La Birmania. I nostri, i ribelli al regime militare, erano sul fronte di Manerplaw. Li abbiamo raggiunti, con la telecamera e le pellicole in prima fila. Ne abbiamo persi tanti, in quella battaglia. Io sono rimasto ferito: una sciocchezza. Ma abbiamo filmato tutto nel documentario Burma, the unending struggle. Eravamo in tre: io, il fonico e l’operatore. Allora si girava in 16 mm per 11 min di ripresa a pellicola, e ogni pellicola aveva il suo magazzino. Significa che, quando sei nel deserto del Chad, ti devi portare 13 o 14 valigie di materiale! Se succede qualcosa, quando succede, devi sapere come prenderla al volo: non si poteva filmare tutto, come si fa ora. Allora imparavi a sviluppare anche un’attenzione diversa, una sensibilità in attesa. Io non ho mai perso l’imbarazzo di filmare la gente: questo mi ha permesso di essere aperto, sentire quello che succede e cambiare. E poco prima che succeda il finimondo, cominci a filmare.

Marta De Nitto Personé