L’angolo di Michele Anselmi 

Chissà se il nome della protagonista, che dà il titolo al film, è stato scelto a caso. Nella mitologia greca Dafne è una sacerdotessa della Madre Terra: una ninfa fiera della propria libertà, capace di conquistare non solo il cuore di Apollo, ma anche quello del mortale Leucippo. La Dafne “inventata” da Federico Bondi, 44enne regista fiorentino che esordì nel 2009 col ragguardevole “Mar Nero”, è una trentacinquenne affetta dalla sindrome di Down ma dotata di un caratterino mica male.
Imperativa e vitale, la giovane donna è una forza della natura: porta i capelli tinti di rosso, ha un lavoro alla Coop che le dà uno stipendio anche se continua a vivere coi suoi, va a ballare con gli amici, si trucca e si veste con cura, decide chi vedere e chi no. Ma la tragedia è in agguato. Durante una vacanza coi genitori, la madre Maria ha un malore e muore (tutto si risolve nei primi dieci minuti). E a quel punto sarà lei, pur nella sofferenza che la scuote, a doversi prendere cura del vecchio padre Luigi: sprofondato in una depressione fonda, come inebetito e inerte, incapace perfino di tirar su la serranda del negozio.
Dal belga “L’ottavo giorno” all’italiano “Up & Down. Un film normale”, solo per citarne due, il cinema ha spesso raccontato la vita di quelli che un tempo venivano definiti, con parola orribile, “mongoloidi”; ma “Dafne” segna un piccolo punto di svolta, perché Bondi rinuncia a ogni patetismo o imbarazzo, facendo della sua protagonista una sorta di eroina Down.
Sarà anche perché Carolina Raspani, classe 1984, si impossessa del personaggio con buona grinta, portandovi molto di sé: l’inconfondibile erre moscia, un certo piglio sarcastico e petulante alla Luciana Littizzetto, la consapevolezza di essere “molto felice e single convinta”. Non a caso dice di lei il regista: “Carolina non subisce la propria diversità, ma la accoglie, ci dialoga, vive la sua condizione con matura serenità”.
La storia è fatta di niente, ma il sentimento che l’attraversa rende “Dafne” un film curioso, anche nell’andamento randagio che trova il suo pretesto nel lungo trekking tra le alture toscane che padre e figlia intraprendono alla volta del piccolo cimitero dove è stata sepolta Maria. Un viaggio che è anche percorso intimo, emotivo, un’occasione per conoscersi meglio e trovare una più densa forma di convivenza ascoltando “il respiro di mamma” (è un po’ la trovata poetica del film).
Se Stefania Casini esce presto di scena, Antonio Piovanelli, bravo attore purtroppo dimenticato dal cinema italiano, sulle prime caracolla mesto nel ruolo del padre, ma poi qualcosa cambierà nel corso del pellegrinaggio continuamente riscaldato dalla buffa intraprendenza di Dafne.
Premiato dalla Fipresci alla Berlinale 2019, il film esce il 21 marzo, con Istituto Luce Cinecittà, in occasione della “Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down”.

Michele Anselmi