Il viaggio nell’eccesso inizia da un paio di baffi. Questo è l’headline di “Dalíland”, il biopic su Salvador Dalí, diretto da Mary Harron con il Premio Oscar Ben Kingsley nei panni dell’artista. E questo viaggio finisce sempre con un paio di baffi, diventati ormai canuti, come i lunghi capelli, scarmigliati e sporchi, nel ritratto finale, molto commovente, di un tenerissimo anziano, ripreso in primo piano, mentre osserva su una sedie a rotelle il panorama da una finestra di un ospedale, in piena solitudine. E il canuto, in questione, è il geniale e bizzarro artista Salvador Dalí, di cui lo scorso 11 maggio, data di presentazione del film alla stampa, ricorreva proprio l’anniversario della nascita.

“Dalíland” è il film sul suo mondo, ritratto in tre tempi appartenenti a periodi e a città care all’artista: lo vediamo in un tempo come protagonista dello spettacolo nel programma televisivo “What’s The Artist?” del 1950, dove si paragona ad un quasi-dio. Come artista bizzarro nella New York del 1974 con il suo nuovo assistente ingaggiato proprio per l’esposizione. Come anziano solitario nel 1985 su una sedia a rotelle. Il suo è un mondo eccessivo e stravagante, costellato di quadri, orge, muse, caviale e grandi masturbatori, come il titolo di una sua nota opera cui si ispira una scena esilarante del film. A tratti ironico e commovente, “Dalíland” è un manuale didattico di storia dell’arte mostrata in una cornice dorata, di quel Giallo Napoli che l’artista adorava. Dello stesso colore è la sublime fotografia, gli abiti e i mantelli che Dalí indossa, le pareti e poi le coppe di champagne e molti altri oggetti che colorano il suo mondo.

E in questo tripudio dorato Dalí è sempre in compagnia delle sue donne-muse: della sua, amata ed infedele moglie, Gala e di Amanda Lear, di cui sarebbe interessante conoscere l’opinione sul film, soprattutto sul finale, così ambiguo che la ritrae triste per l’artista e, allo tempo, felice ed appagata per la notorietà raggiunta con i suoi spettacoli. Nel suo mondo dorato, Dalí lo vediamo anche mentre prende le medicine, come un comune mortale, mentre per un party richiede formiche vive, cavallette e nani, ipocondriaco e sofferente con Gala che gli cura “le bue” – proprio così nel film le ferite sono chiamate – come se fosse un fanciullino pascoliano.

Ma le scene di maggior pathos di questo mondo dorato sono quelle dei ricordi, resi brillantemente con inneschi e disinneschi che permettono allo spettatore di vedere i simulacri di Dalí da giovane, insieme a Bunuel, con il quale realizzò per il cinema l’emblematico cortometraggio “Un chien andalou”. E tra queste le scene più suggestive sono quelle della genesi dell’orologio che si scioglie – icona della sua arte surrealista – e l’abbraccio che suggella l’amore eterno tra lui e Gala su un promontorio nella sua Spagna.

“Dalíland” è un’opera didattica sull’arte che riflette anche sulla commercializzazione delle opere e sulle gallerie. Al cinema dal 25 maggio con Plaion Pictures.

Alessandra Alfonsi