In Dalla katana al revolver. Akira Kurosawa e Sergio Leone a confronto (Profondo rosso, Roma, 2019), Riccardo Rosati mette a confronto il gigante del cinema orientale con il padre dello spaghetti western e con il collega americano John Sturges, autore del fortunatissimo I magnifici sette. Ne abbiamo parlato con l’autore.

A monte La sfida del samurai, a valle Per un pugno di dollari: la stessa storia filtrata da due differenti sensibilità. Riccardo, cos’è che attrae Leone del film di Kurosawa?
R.R.: Diverse cose. Il film di Kurosawa fu presentato alla XXII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, con l’assegnazione della Coppa Volpi a Toshirō Mifune come miglior attore maschile. Nel luglio 1963, venne proiettato per il grande pubblico presso il Cinema Arlecchino di Roma. Tra gli spettatori c’era anche il direttore della fotografia Enzo Barboni (più tardi diventato regista con il nome di E. B. Clucher), il quale ne parlò in modo entusiastico a Leone. Visto il film, il regista romano comprese immediatamente che si trattava di una storia archetipica, e pensò che poteva essere adattata in chiave occidentale, scegliendo una ambientazione Western. Da lì nacque La rivoluzione Sergio Leone, che è anche il titolo di un voluminoso testo, appena uscito e a firma dell’inglese Sir Christopher Frayling, il maggiore esegeta al mondo del cineasta italiano.

L’attaccamento disinteressato al gruppo, o meglio la consapevolezza dell’essere parte di un tutto, incontra un orizzonte di pensiero squisitamente nipponico. In che modo I magnifici sette tradisce I sette samurai, nonostante il noto apprezzamento di Kurosawa del lavoro di Sturges?
R.R.: Chiariamo subito che quello di Sturges è un gran bel film. Solo che riprende da quello del Maestro nipponico l’“involucro”, in modo per giunta pedissequo. In sostanza, non vi aggiunge niente. Stupendo da vedere, ma non riesce a decodificare l’opera di Kurosawa in una prospettiva occidentale, come, per converso, fece il nostro Leone. Per dirla con Roland Barthes, di cui sono studioso, ne mutua i “codici gnomici”, senza proporne di propri. Tutto è speculare, fin troppo speculare ne I magnifici sette.

Qual è, proseguendo questo discorso, la diversa focalizzazione dell’eroe da Kurosawa a Leone e da Kurosawa a Sturges?
R.R.: Ecco, sta proprio qui il punto! Leone fu un autore eccelso, sin da subito amatissimo e popolarissimo. Nondimeno, vissuto ai margini dei grandi riconoscimenti, osteggiato dagli intello, poco degnamente omaggiato in vita dai grandi festival internazionali; eppure, egli andò avanti per la sua strada, sempre in ascesa, come gli aveva insegnato la Scalinata di viale Glorioso, in quel Rione Trastevere ove era nato. Egli elaborò un altro West, intriso di influenze goldoniane, di personaggi che rimandano a quelli di Cervantes, e agli eroi omerici. Infatti, Leone considerava provocatoriamente il sommo poeta della classicità greca come il primo autore Western della storia. Tuttavia, non esiste l’eroe nel suo Cinema. In quello di Sturges sì, e i buoni, malgrado siano dei pistoleri fuorilegge, ci vengono proposti in modo troppo assolutistico, con una netta divisione tra il Bene e il Male, che è poi talora una caratteristica deteriore della Settima Arte statunitense.

Partendo dalla sostanziale differenza tra “versione” e “trasposizione”, puoi spiegare qual è il punto di vista di Dalla katana al revolver sulla filiazione dei film di Leone e Sturges rispetto ai modelli giapponesi?
R.R.: Trattasi di un tema a me assai caro, che ho affrontato nel mio primissimo libro: La trasposizione cinematografica di Heart of Darkness (Brescia, Starrylink, 2004). La “versione” è quando sostanzialmente si copia, anche in buona fede, un’altra opera. Non sto parlando di plagio, ovviamente, ma di una “ripresa impersonale”. Al contrario, con la “trasposizione”, si sposta una narrazione di contesto, cambiandone tutto, fuorché il senso più profondo del messaggio, pensiamo a quel capolavoro che è Apocalypse Now (1979) di Coppola, che del romanzo di Joseph Conrad, Cuore di tenebra, ne ripropone esclusivamente il senso. Si potrebbe altresì dire che con la versione si insegue una “fedeltà”, la quale è sovente impossibile; mentre, con la trasposizione la storia si offre come se stessa, mantenendo però intatto il significato ultimo della opera a cui si ispira. Quindi, il film di Leone è sicuramente più vicino a quest’ultima, rispetto a quello di Sturges.

Il rapporto in chiave artistica tra l’Occidente e il Giappone, nella tua analisi, passa anche attraverso il manga. Quanto questa forma d’arte grafica risente del cinema e qual è la sua importanza oggi per comprendere a fondo la cultura dell’Arcipelago?
R.R.: Direi che ha una importanza capitale, ed è strettamente collegata al cinema, si influenzano reciprocamente da decenni ormai. Non è certo una novità che il Giappone si sia costantemente raccontato al mondo attraverso media quali manga e anime. Lo ha fatto in modo così incisivo, che ha in parte ricreato l’immaginario occidentale, persino nel Western. Di questo se ne parla nell’innovativo saggio in appendice al volume di Gianluca di Fratta, Kurosawa, Leone e il “Western Anime”; uno scritto che ha impreziosito non poco il libro, come del resto la Prefazione di Antonio Tentori.
Il rapporto tra la nostra e la loro cultura è stato fertile, specie nel genere, un qualcosa che nell’epoca moderna ci avvicina al Giappone. Samurai e ninja si sono radicati nell’immaginario collettivo mondiale, partendo dai fumetti e dai cartoni animati, per estendersi fino alla saga di Star Wars e ai supereroi della Marvel. A proposito della opera di George Lucas, sembra strano a dirsi, poiché sta da sempre sotto gli occhi di tutti, ma il mitico casco di Darth Vader altro non è che una intelligentissima rivisitazione in chiave futuristica dell’elmo dei samurai: il kabuto (兜). Questi, talvolta bizzarri, collegamenti rappresentano i rivoli che connotano il nostro legame con questo complesso Paese d’Oriente. Pensiamo, ad esempio, ai “robottoni” resi celebri da Gō Nagai. Questi usano armi tradizionali: la katana e la yari (槍, la lancia dei samurai); armi conosciute in Occidente proprio grazie a quei “cartoni” che molti di noi hanno visto con occhi ammirati da bambini.

Kurosawa non ha mai diretto un Western, eppure il suo cinema è alla base di capisaldi del genere, nel tuo saggio citi anche “L’oltraggio” di Martin Ritt. Quale può essere il motivo?
R.R.: Kurosawa ha fatto involontariamente davvero molto per i film Western, malgrado non ne abbia diretto nemmeno uno, rivelandosi nel tempo una continua fonte di citazioni. Nel caso di Ritt, lui rielabora la pellicola Rashōmon (1950). Mi piace spesso dire che Kurosawa sia stato tanto amato da noi, giacché non è “molto giapponese”. Ovvero, il suo modo di girare, l’espressione delle passioni, la velocità stessa dei suoi film, tutto ciò è abbastanza vicino al nostro gusto e sensibilità.

Quali sono i tuoi prossimi progetti editoriali e qual è stato il rapporto con la casa editrice Profondo rosso?
R.R.: Ottimo direi. Per quanto concerne questo libro in particolare, l’amico Luigi Cozzi mi ha proposto di scriverlo e io ho accettato. Colgo l’occasione per ringraziarlo per la sua stima e fiducia. All’inizio, ero leggermente intimorito, era la prima volta che mi confrontavo in modo tanto ampio col Western, però ho scoperto man mano che anche in questo campo avevo alcune cose da dire. Molto mi ha aiutato la mia lunga frequentazione coi “generi non mimetici”, di cui parlo esaustivamente in un’altro mio libro: Lo schermo immaginario (Chieti, Tabula fati, 2016).
Sui prossimi progetti in cantiere, è in uscita per le Edizioni Solfanelli una mia raccolta di scritti cinematografici sul cinema “realistico”. Nel contempo, sto lavorando a un libricino a quattro mani che analizza sia Batman che una intrigante figura del folklore britannico del XIX secolo; penso che verrà fuori un testo abbastanza originale e pieno di spunti sufficientemente profondi e documentati. In ultimo, sto rifinendo un romanzo breve in tema fantasy che mi auguro di cuore possa vedere la luce nel 2020.