L’angolo di Michele Anselmi
Quando si dice la coincidenza. Il film islandese “La donna elettrica” esce nelle sale italiane giovedì 13 dicembre, targato Teodora, poche settimane dopo il successo elettorale di Katrin Jakobsdottir. Quarantunenne “verde” e fervente sostenitrice delle politiche a favore dell’ambiente, la donna è diventata Primo ministro, dopo la caduta di due governi di seguito annientati dagli scandali, con la promessa di rendere l’Islanda “carbon neutral” entro il 2040.
Sarebbe contenta, credo, la protagonista del film diretto da Benedikt Erlingsson, classe 1961. Halla è una signora borghese attorno ai cinquanta, porta i capelli corti, per vivere istruisce un coro, è single, fisicamente tonica, ha appeso i ritratti di Mandela e Gandhi in salotto. Ma noi spettatori sappiamo che custodisce una doppia vita: armata di arco da competizione, frecce, rampini e abiti per mimetizzarsi, Halla compie spericolate azioni di sabotaggio contro chi progetta di vendere quella splendida isola ai cinesi, pezzo per pezzo.
Vero? Falso? Lei non guarda in faccia a nessuno: in lotta con le multinazionali, abbatte piloni dell’elettricità (per questo sui giornali viene definita “la donna elettrica”), provocando scintille e black-out micidiali, nella preoccupazione crescente dei governanti e dei sindacati.
Naturalmente i servizi segreti la braccano, la polizia mobilita elicotteri e droni per acchiapparla mentre corre sulla brughiera dopo ogni colpo, ma lei sembra invincibile.
Finché – ecco il fattore umano – non le arriva fuori tempo massimo una lettera che riguarda una sua dimenticata richiesta di adozione. C’è una bambina ucraina resa orfana dalla guerra civile, Nika, che l’aspetta con una certa urgenza. Difficile decidere: continuare a battersi o fare la “mamma” single? E intanto il cerchio sembra chiudersi sulla tosta eco-guerrigliera, mentre la sorella gemella, maestra di yoga, la invita a partire alla volta dell’orfanotrofio.
Succedono tante cose in “La donna elettrica”, che in originale si chiama non a caso “Woman at War” e con quel titolo ha appena vinto il Premio Lux patrocinato dal Parlamento europeo (secondo è arrivato l’austriaco “Styx”, uscito qualche settimana fa anche in Italia, distribuito da Paolo Minuto).
Alla sua seconda regia, dopo l’acclamato “Storie di cavalli e di uomini”, Benedikt Erlingsson costruisce un film curioso, bizzarro, dove il ritratto di quella donna pugnace, un po’ vikinga, fa tutt’uno con la ruvida bellezza del paesaggio islandese. Più favola contemporanea che eco-thriller, “La donna elettrica” poco indulge al sentimentalismo, descrive Halla come una strana macchina da guerra, pure un po’ “alla Rambo”, e tuttavia fa affiorare le fragilità di questa donna in cerca di una tardiva maternità. Avrete capito che “le donne in guerra” sono due in realtà: Halla e la piccola Nika da recuperare là dove il conflitto ha devastato e ucciso davvero. Il finale, dal respiro fortemente metaforico, è bellissimo nel suo essere “aperto”.
L’attrice Halldóra Geirharðsdóttir si sdoppia nella protagonista Halla e nella sorella gemella Ása, quasi a suggerire i due aspetti di una stessa donna, divisa tra azione e meditazione, tra militanza e trascendenza. Al pari di certi film di Aki Kaurismäki, il tono è freddo, con affondi buffi o beffardi e trovate surreali, come il trio di musicisti islandesi e il coro ucraino che entrano direttamente in scena, quasi interagendo con Halla, secondo un’idea spiritosamente diegetica di colonna sonora.
L’inizio magari è spiazzante, ma quasi subito si entra nel “mood” della storia, e alla fine si fa fatica a uscirne. Non saprei dire se i diritti della natura equivalgano ai diritti umani, come pensa il regista; ma anche questo è il bello del film: racconta una guerra privata senza toni manichei. Almeno così mi pare.
Michele Anselmi