“David Cronenberg. Estetica delle mutazioni” (Weird Book, 2022), di Roberto Lasagna, Rudy Salvagnini, Massimo Benvegnù e Benedetta Pallavidino, racconta motivi e ossessioni del cineasta canadese, facendo il punto su un’opera che pone interrogativi oltremodo stimolanti alla contemporaneità. Abbiamo incontrato i quattro autori per una chiacchierata.

Non ci sono “traumi noti” nell’infanzia di Cronenberg, come chiarisce la citazione dal libro di Rodley che riporti, eppure il suo cinema delle mutazioni è quanto di più anomalo si possa immaginare. Quali sono gli stimoli culturali e i riferimenti artistici da cui nasce una poetica tanto fuori norma e quanto è importante la radicalità del primo periodo, anche tenendo presente che il suo ultimo lungometraggio riprende titolo e suggestioni di uno dei suoi primi lavori?

Rudy Salvagnini: Cronenberg ha vissuto un’infanzia felice e senza traumi particolari, ma in un ambiente molto stimolante dal punto di vista culturale. Il padre, giornalista e scrittore, era un bibliofilo e la loro casa era letteralmente traboccante di libri con tutto ciò che ne consegue. La madre era una pianista. Entrambi erano molto supportivi nei confronti del giovane David e ne assecondavano ogni interesse culturale. Proprio per questo, forse, pur senza esserlo in modo evidente, Cronenberg si sentiva un po’ un outsider nei confronti degli altri e rimaneva stupito quando andava a visitare i suoi amici e vedeva le loro case senza libri. La morte del padre è stato un duro colpo per l’improvviso senso di finitezza della vita umana che introduceva. Cronenberg racconta come la cosa l’avesse molto turbato. Tutti fatti formativi, uniti alla propensione costante alla scrittura e quindi all’invenzione, all’elaborazione della realtà. Cronenberg andava spesso al cinema, ma non era un cinefilo: il punto di svolta fu la visione del film “Winter Kept Us Warm” (1965) di David Secter, uno studente come lui, che gli fece capire che si poteva fare del cinema anche lì, anche con poco. I riferimenti culturali più svariati – da Henry Miller a William Burroughs a Isaac Asimov, al cinema europeo – si sono poi fusi con la creatività peculiare di Cronenberg, tratto originale, per i primi film sperimentali. Poi l’influenza di Corman e soprattutto di George A. Romero è alla base dei primi horror, genere metaforico per eccellenza con cui affrontare tematiche altrimenti inaffrontabili. I suoi primi film sono quindi fondamentali per la fondazione artistica complessiva di Cronenberg.

La porzione di filmografia di cui ti occupi, da “Scanners” a “Inseparabili”, è forse la più sorprendente perché segna l’incredibile upgrade di un autore nato che, nonostante i temi e le forme estreme, riesce ad approdare ad uno scenario produttivo mainstream, considerando che “La zona morta” viene prodotto da De Laurentiis e “La mosca” da Mel Brooks… Come spieghi il successo, anche commerciale, di un autore che fa di tutto per essere respingente?

Roberto Lasagna: Dopo il cinema delle pulsioni disturbanti degli anni Settanta, titoli come “Videodrome” o “La mosca” affrontano in chiave esistenziale le frequentazioni pericolose tra l’uomo e la macchina, esplorando la mente e il corpo come territori mutanti di cui si stanno perdendo le staffe. Nel proposito di non tradire se stesso vanno interpretate le frequentazioni del regista canadese con produttori importanti ma anche imprevedibili della scena statunitense: non dimentichiamo infatti che De Laurentiis produsse anche Michael Cimino dopo la tormentata epopea di “I cancelli del cielo” e Mel Brooks si dedicò anche alla produzione di un titolo come “The Elephant Man” di David Lynch. Si tratta di produttori che hanno saputo cogliere la differenza, e Cronenberg l’ha sempre manifestata attraverso il suo gusto, con la sua visione pronta a disegnare scenari di alterazione della percezione. Qualcosa che è nell’aria, con lo spettatore di quel periodo che trova in Cronenberg il cineasta in grado di offrire visioni allarmanti. Da “Scanners” a “Inseparabili”, dal cinema delle possessioni telepatiche al cinema dei corpi alterati al seguito di tentazioni megalomaniache, il cineasta inanella film di grande suggestione in un periodo che traghetta l’utopia capovolta tra i melodrammi di corpi che mutano e si fondono al servizio di una tecnologia dagli aspetti oscuri. Ogni aspetto nuovo può offrirsi, nella scena futuribile del cineasta, quale irresistibile fonte di mutazione, ma anche tratto di subdolo asservimento a poteri ingovernabili. Intanto la regia di Cronenberg si fa più raffinata, e ricordiamo come non sempre il suo cinema sia stato subito compreso, ma, come accadde con “Videodrome”, la successiva riscoperta portò l’autore al livello di cineasta di culto di una generazione.

Con il finire degli anni Ottanta, Cronenberg è un autore riconosciuto e ormai più copiato che capito. L’exploit di “Il pasto nudo” e la rivoluzione di “Crash” ne fanno un nume tutelare di un cinema che non è più quell’horror concettuale del decennio precedente, ma di un esperimento che scardina lo stesso meccanismo dei generi. Puoi parlarci di questo aspetto?

Massimo Benevegnù: Penso che il periodo degli anni Novanta di Cronenberg sia tutto da rivisitare con grande attenzione. Sembra quasi che, arrivato al successo con i film precedenti, abbia tutto d’un tratto deciso di alzare l’asticella sempre più in alto, scegliendo di volta in volta progetti sempre più complicati e ‘infilmabili’ come appunto gli adattamenti di Burroughs e Ballard. Allo stesso tempo, visti con il nostro sguardo contemporaneo, possiamo ancora valutarli come buone e rispettose trasposizioni dei testi originali? Quali sono stati i compromessi accettati da Cronenberg per portarli sullo schermo, quali le concessioni fatte al mercato cinematografico dell’epoca? Di certo si è trattata di una svolta dal punto di vista artistico per Cronenberg, non vorrei dire la sua maturità autoriale, ma di certo un momento chiave del suo percorso.

A conferma dell’inafferrabilità di Cronenberg, “A History of Violence” apre una nuova fase, più classica forse. Quali sono le caratteristiche del suo fare cinema negli anni Zero?

Benedetta Pallavidino: Gli anni Zero segnano una rottura, si apre un discorso sul reale, sulla società che nel corpo e nella mente cela una mostruosità meno esibita, eppure dirompente, veicolata dalla violenza, dalle apparenze, dall’apatia. Cronenberg modula i suoi temi ricorrenti e li declina in maniera insolita per parlare di un presente evanescente e mutevole di uomini spregevoli che si boicottano e adattano fino a diventare mangiatori di plastica, insensibili speculatori e fenomeni da baraccone, ignari artefici di una decadenza massiva e scellerata.

Qual è, oggi, l’eredità di Cronenberg?

Rudy Salvagnini: L’eredità che ci lascerà Cronenberg è naturalmente composta dal corpus autoriale rappresentato dai suoi film, che lo qualifica per un posto di primo piano nella storia del cinema. Ma se vogliamo estrarre da questo qualche aspetto caratterizzante come lascito culturale, direi che senza dubbio si tratta del coraggio di osare, della capacità di affrontare l’infilmabile. Quello che il cinema di Cronenberg ci lascia è la sensazione che le sfide – nel suo caso artistiche e culturali – vadano affrontate senza paura di sbagliare, senza tirarsi indietro di fronte alle difficoltà.

Roberto Lasagna: Il cinema di Cronenberg non è mai tranquillizzante e tantomeno banale. Più che di eredità sembra possibile parlare di un vuoto, di una mancanza, difficilmente colmabile, anche se con il suo nichilismo disturbante il cineasta canadese lascia tracce in nuovi autori importanti, come ad esempio Yorgos Lanthimos. La sua opera affronta varie fasi, vari processi di maturazione, approdando ai film psicologici dell’ultimo periodo che sono in realtà la tenuta di una coerenza, di quello sguardo sempre rivolto all’interno dell’uomo. Come riflette anche l’ultimo, coraggioso, “Crimes of the Future”.

Massimo Benevegnù: Semplicemente, non penso esisterebbe “Titane” se non ci fosse stato David Cronenberg. Ma credo neanche “Annette”.

Benedetta Pallavidino: L’eredità di Cronenberg sta in tutto quel cinema che gioca con le mutazioni, con i corpi, con le performance con la provocazione spavalda che, a volte, persino si contraddice. È interessante vedere come le donne abbiamo dato nuova linfa a questa eredità cangiante: Ducourneau, Garai, Hausner (“Little Joe”), persino Amirpour quando non eccede nell’emulare Tarantino.