Tra i luoghi del cuore di David Bowie c’è il nostro paese. Davide Riccio pubblica per Arcana il primo (e definitivo) saggio su un rapporto d’elezione che, in primis, proprio i fan italiani rischiano di non conoscere. Per presentare “Italian Bowie. Tutto di David Bowie in Italia e visto dall’Italia”, abbiamo incontrato l’autore.

“Italian Bowie” passa in rassegna il mito di David Bowie declinandolo nei rapporti intessuti con il nostro Paese fin dalla fine degli anni Sessanta. Come è nata l’idea di questo volume?
Davide Riccio: Ho ascoltato David Bowie per tutta la vita, fin dall’infanzia. Se, durante la adolescenza, presi una chitarra in braccio per desiderare di fare anch’io musica, la mia musica, lo devo a lui. Fu lui a rendermi affascinante l’eventualità di fare il mestiere dell’artista. Guadagnata una chitarra a dodici corde, la sua prima cosa che imparai a suonare fu “Space Oddity”.
Anni fa curavo alcuni programmi tematici su Radio Banda Larga, una webradio torinese fondata da Renato Striglia. Più volte proposi dei programmi dedicati a Bowie secondo temi diversi. Bowie, per quasi sei decenni, dal 1963 al 2016, ha esplorato e diversificato il suo lavoro così tanto, ma anche influenzato il lavoro di molti, da rendere possibile dedicargli compilazioni dei suoi brani raccolti attraverso i più svariati argomenti. Uno di questi programmi fu su Bowie e l’Italia, a cominciare dalle due canzoni che cantò nella nostra lingua, quindi a seguire le versioni tradotte nella nostra lingua, dei suoi lavori o, ancora, le cover in inglese da parte di artisti italiani o i brani a lui ispirati o dedicati. Superato un lungo periodo di tre anni in cui avevo come rimosso l’evento della sua fine, ho sentito – diciamo così – di poter affrontare l’elaborazione del lutto, dapprima scrivendo una canzone a lui dedicata (“Duende for David”, pubblicata nel ’21 nel doppio cd “New Roaring Twenties”), poi scrivendo questo libro, per ringraziarlo in qualche modo. Libri su Bowie ne sono stati scritti molti, però, e molti se ne scriveranno ancora. Serviva un argomento originale. Ripercorrere la sua incredibile biografia dal punto di vista italiano mi è sembrato ideale, oltre che originale. Già da ragazzo faticavo a sentire Bowie come esclusivamente inglese. Questa cosa stava stretta intorno a un personaggio e un artista così grande. Io credo che Bowie sia stato il cosmopolita per eccellenza: in senso artistico, come è per ogni genio, lui appartiene a ogni nazione, la sua patria è stata infine il mondo intero ed è tra coloro che potrebbero rappresentare al meglio l’umanità. Colpisce, del resto, che sia stato, sia e probabilmente sarà per molto tempo ancora a venire l’artista più rispettato e amato al mondo. Nello specifico, però, io mi sono chiesto cosa ci sia stato di italiano nella sua vita e nella sua opera e cosa, in particolare, abbia dato lui all’Italia. Penso che molte nazioni potrebbero fare una analoga operazione. Nel 2018, scritta una prima versione del libro, ne feci un programma in 17 puntate su RBL, proponendo l’ascolto di tutto il materiale raccolto nel frattempo. Sembrò funzionare. Poi, via via, vi ho rimesso mano per i debiti aggiornamenti fino a inviare il “manoscritto” ad Arcana, che ringrazio… ed eccoci.

Dalla lettura degli articoli di testate italiane, che riproponi nel libro, che tipo di immagine di Bowie credi che emerga? Che atteggiamento hanno i giornalisti italiani nei confronti del musicista?
D. R.: Bowie non è ancora realmente così conosciuto in Italia. Da ragazzo, ma anche in seguito, mi sono sempre stupito di quanto poco o nulla si sapesse davvero di Bowie qui da noi. O trovavi il fan, come me, che allora sapeva o voleva sapere e collezionare tutto, o Bowie (immancabilmente pronunciato “Baui”) era solo un vago nome quasi mai associato al titolo di una precisa canzone. Un nome sentito, ma vago, legato al massimo e superficialmente a un periodo o a un contenuto ristretti. Pochi riuscivano a comprendere quindi la sua grandezza poliedrica, multiforme. Non è facile per un comune ascoltatore seguire un artista così complesso o completo e poliedrico, che cambia continuamente la propria musica e anche la propria immagine, sperimentandosi anche in altri campi come il cinema o la pittura e avanti, averne quindi una idea complessiva. Anche se questo gli ha permesso di arrivare prima o poi e frammentariamente a tutti con qualcosa di suo, Bowie, dal principio alla fine e da questo punto di vista, è stato un artista spiazzante e piuttosto scomodo da seguire lungo il suo percorso verso un’opera d’arte totale. Dopo la sua morte è cambiato qualcosa in Italia, ma ancora oggi sono in molti ad averne solo una parziale visione. E molti ancora, sentendolo dire in giro o leggendone da qualche parte, mi chiedono perché lo si consideri uno dei più grandi artisti del nostro tempo. Cosa non facile da spiegare in breve. I giornalisti, dal canto loro, più consapevoli del percorso esemplare e articolato di Bowie, hanno provato di volta in volta a descriverlo in una chiave più ampia, collegata, appassionandosi, ma spesso anche facendo i conti con questa complessità non facilmente riducibile nello spazio di un articolo dalle parole contate; quindi anche frustrante, dovendo sbrigativamente attingere ai cliché chiave nel riassumere una carriera così sfolgorante e geniale. Per fare questo ora non è un caso la continua uscita di libri che approfondiscano il suo lascito dalle più disparate visuali: l’esoterismo, il cinema, il Bowie prima di Bowie, gli anni di silenzio, il corpo dell’artista e avanti. Colpisce, inoltre, che i giornalisti che l’hanno incontrato e intervistato abbiano anche sentito il bisogno di far sapere che Bowie era una persona certamente brillante, ma anche amabile, simpatica, umile, qualità non sempre riscontrabili in una superstar. Davanti a un artista e a una persona così, l’atteggiamento di un giornalista, come di chiunque, non può che essere stato innanzi tutto di grande rispetto.

Tra le esperienze italiane di Bowie non si può dimenticare la sua partecipazione, nel ruolo dell’azzimato killer, in “Il mio West” di Veronesi. Cosa ne pensi e cosa credi abbia trovato di interessante nel personaggio?
D. R.: Bowie sicuramente amava la Toscana, dove ebbe uno dei suoi primi successi fin dal ’69 a Monsummano Terme. Sappiamo che scelse Firenze, per altro, per sposarsi anche in chiesa dopo il matrimonio civile in Svizzera con Iman. Tornare per un periodo in Toscana, a girarvi questa volta un film, per altro pare per soli centomila dollari, dev’essere stato per lui allettante e piacevole. E, come si vede in diversi film e telefilm, preferiva le parti del cattivo o del perdente. Veronesi, da fan di Bowie, racconta che osò “più del dovuto”, ma provò lo stesso a mandargli un fax per offrirgli la parte del pistolero sanguinario. Come ha detto Veronesi stesso, Bowie, entro 48 ore gli rispose, dicendogli che era molto pazzo ad offrirgli quel film, ma che lui era ancora più pazzo perché accettava. Pare che ad averlo colpito fu il fatto che il suo personaggio morisse. Ossessionato dalla morte, la esorcizzava parlandone spesso e vivendola per finta nei film. “In tutti i film in cui ha recitato il suo personaggio muore. Quindi anche in questo caso si può dire che ha accettato quasi esclusivamente per questo, perché sul set amava morire! La scena finale in cui muore, nel mio film, ha voluto rifarla 7-8 volte”, dichiarò Veronesi. E forse ad allettarlo ulteriormente, oltre che un fare ritorno alla sua amata Toscana, ci fu l’interpretazione di un qualcosa di mai fatto prima, cioè di un personaggio in un film western (anche se o forse proprio perché “all’italiana”). Quando Veronesi gli chiese perché avesse accettato di fare il suo film, Bowie rispose: “Il mio criterio sono le foto di scena. Ne avevo di già vestito da vampiro, da alieno, da guerra mondiale… Invece da cowboy mi mancava”. Veronesi, intervistato da Francesca De Sanctis ricordava ancora. “Durante le pause Bowie stava tutto il tempo vestito da cowboy, anche quando era di riposo e avrebbe potuto tranquillamente fare a meno di indossare abiti di scena. Era l’orgoglio della costumista. Unica sua richiesta fu la penna sul cappello, un vezzo. Penso che alla fine si sia portato via il suo costume da cowboy”. Insomma, fu per lui soprattutto interessante l’opportunità di poter vestire, tra i tanti già impersonati, i panni di un personaggio fino allora inedito?

Se l’influenza di Bowie sulla musica italiana sia evidente e documentatissima – sia sufficiente pensare ai molti dischi di cover – si può parlare di un’influenza della musica italiana (non esclusivamente leggera) su Bowie? Infine, possiamo parlare della fascinazione che esercitava su di lui la musica di Lucio Battisti?
D. R.: Sappiamo che Bowie, del nostro paese, ha amato soprattutto l’arte, il design, la moda. la cucina. E, musicalmente, che ha amato le canzoni di Lucio Battisti. Del resto riscrisse in inglese il testo di una sua canzone per Mick Ronson e il suo album d’esordio (“Io vorrei… Non vorrei… Ma se vuoi…”, che divenne “Music is lethal”). Bowie elogiò in particolare l’album “Anima latina” del ’74, un lavoro sperimentale complesso e diverso dalla precedente produzione di Battisti, che quasi anticipa di molti anni il cosiddetto “periodo bianco”, la cui importanza e bellezza è, secondo me, ancora tutta da far scoprire o riscoprire ai più. Anche Battisti, a un certo punto, sentì arrivare il futuro e rifiutò il mercato e le tendenze del momento per proiettarsi oltre, verso qualcosa di diverso, di nuovo, proprio come era solito fare Bowie. È difficile dire se Battisti abbia però esercitato una fascinazione su Bowie in termini anche di una qualche influenza. Come scrivo anche nel libro, purtroppo Bowie non si è mai espresso sulla musica italiana, che sembrava non seguire in particolar modo. L’unico musicista italiano con cui collaborò fu Giorgio Moroder. E Claudio Fabi, che curò la versione italiana di “Space Oddity”. Da Morrissey sappiamo che chiese inoltre una collaborazione a Morricone, ma non ci fu seguito. Altri musicisti avevano solo origini italiane, come Tony Visconti, sicuramente importante per Bowie. E sui suoi ascolti si sa per ora soltanto poche cose: che al suo matrimonio, oltre alle musiche della cerimonia in chiesa di Vivaldi, Corelli e Geminiani, per la festa scelse o apprezzò soprattutto un repertorio di melodie mediterranee e di canzoni popolari o di tradizione tenorile, come “Quando quando”, “Sciuri Sciuri”, “Firenze sogna”, “O Sole mio” oppure “Caruso” di Lucio Dalla, che tuttavia ha chiari riferimenti alla canzone classica napoletana e il cui ritornello deve molto al brano “Dicitencello vuje” composto negli anni ’30. E sappiamo che almeno una volta andò all’opera per assistere alla “Madama Butterfly” di Puccini. Una volta, ma non so più dire dove, lessi una sua dichiarazione in merito al suo essere un artista rock molto attento alla melodicità; ma poi, la “melodicità” non è una prerogativa soltanto italiana, come magari molti penserebbero, né lo sono i mandolini di “Fantastic Voyage”. Sicuramente l’Italia ha però tanti modi di fare musica (lo rilevava per altro già Alain Lomax nel suo viaggio tra le musiche d’Italia negli anni ’50), così come tanti sono stati i modi di fare musica di David Bowie.