L’angolo di Michele Anselmi
Coi tristi tempi che corrono alla voce “incassi”, una volta smaltita la sbornia benedetta di “Avatar 2” non so francamente chi andrà a vedere “Decision to Leave”, film coreano di Park Chan-wook, classe 1963. Ma fa certo bene la Lucky Red a tenere alta la fiammella del cinema d’autore, in questo caso asiatico, quindi ancor più delicato. Premiato giustamente a Cannes 2022 per la migliore regia, l’autore di “Oldboy” e “lady Vendetta” torna, da giovedì 2 febbraio, con una specie di poliziesco intriso di tormenti amorosi, a suo modo un melodramma noir, con una finale molto bello e struggente, inatteso.
“Sono davvero così ingenuo?” fa lui. “E io davvero così malvagia?” replica lei. Lui è il detective coreano Jang Hae-joon, bello, infelicemente sposato e ossessionato dalla caccia ai cattivi; lei è la bella cinese Song Seo-rae sospettata di aver ucciso il ricco marito appena caduto da un picco durante una scalata. Sembrerebbe un incidente, ma qualcosa non torna, il poliziotto ritiene che la vedova, per nulla affranta, sappia più di quanto dica; e intanto, attraverso sguardi, pedinamenti e abboccamenti, tra i due nasce qualcosa che inclina all’amore, anche se non consumato sessualmente.
Il film, lungo 138 minuti, è divagante, eccentrico, spiazzante, sempre in bilico tra elementi realistici e invenzioni stilistiche. Ad esempio il regista mostra spesso il punto di vista dei morti, che siano persone o pesci al mercato, come se le pupille ormai spente trasmettessero, in soggettiva, delle immagini ancora attendibili, quasi delle prove.
In fondo Song è una “dark lady” da poliziesco americano vecchio stile, una che farebbe diventare matto anche l’investigatore privato Philip Marlowe; e infatti strada facendo, mentre lo sbirro coreano smarrisce ogni residua voglia di fare l’amore con la moglie esigente e gelosa, scopriamo che la scena primaria è destinata a riprodursi, in un’altra città, e di nuovo sarà un marito a finire male…
Tra le due parti, io preferisco la seconda, più intensa e insinuante, diciamo pure più romantica, e certo la versione originale con i sottotitoli offre un motivo in più di interesse, e di pathos, perché tutta giocata sul contrasto tra dipendenza maniacale dai telefoni cellulari e inciampi di comprensione a causa del coreano parlato dalla cinese (una sorta di “Lost in Translation”).
Lui è incarnato da Park Hae-il, lei è la cinese Tang Wei: i due si annusano, si studiano, si amano e si sospettano a vicenda, dentro un gioco psicologico, tendente alla malinconia fonda, benissimo reso sul piano delle prospettive ardite e delle soluzioni estetiche, che alla fine conquista. Almeno ha conquistato me.
PS. Il titolo internazionale in inglese spiega molto, anche se io, fossi stato il distributore, avrei provato a inventarne uno in italiano.
Michele Anselmi