La Festa del Cinema di Michele Anselmi
Occhio all’attore che vedete nella fotografia qui sotto, con il fucile a pompa e la divisa da poliziotto. Si chiama Will Poulter, è inglese, non ha neanche 25 anni: fa davvero paura nel nuovo film di Kathryn Bigelow, appunto “Detroit”, in prima nazionale alla Festa del cinema di Roma. Le sue sopracciglia arcuate sono un marchio di fabbrica, se va avanti così rischia di diventare uno dei cattivi più cattivi del cinema hollywoodiano; e tuttavia la regista di “Zero Dark Thirty” ha visto giusto nello sceglierlo per il ruolo di uno dei tre sbirri razzisti che terrorizzarono alcuni giovani neri e due ragazze bianche nella cruciale notte tra il 25 e il 26 luglio del 1967, al Motel Algiers di Detroit.
Il film non ha avuto un gran successo in America, poco più di 20 milioni di dollari al botteghino, ma chissà che il resto del mondo non gli regali un risarcimento. Da noi esce il 23 novembre distribuito da Eagle Pictures. Certo non è una passeggiata, dura 143 minuti, è alimentato da una tensione crescente che culmina in un lunga e atroce parte centrale, quasi ai limiti dell’insostenibilità, e probabilmente deluderà i fan più incalliti della regista 66enne che si fece conoscere nel 1987 con una sorta di western vampiresco intitolato “Il buio s’avvicina”.
Spiega Bigelow: “Il cinema parla al subconscio, chiedendo quasi un coinvolgimento attivo. In questo caso volevo mettere lo spettatore dentro il Motel Algiers, così da fargli vivere l’esperienza quasi in tempo reale”. Dal suo punto di vista ci riesce, infatti per tutto il tempo del film mi sono rigirato sulla sedia della Sala Petrassi, cambiando posizione, come in preda a uno strano disagio. Le sanguinose rivolte razziali che devastarono Detroit nell’estate del 1967, nate un po’ per caso in seguito a un’irresponsabile retata di neri o forse no (il disagio covava da anni), sono lo sfondo fiammeggiante nel quale Bigelow inserisce l’episodio cruciale di un triplice omicidio. Tre giovanotti di colore restarono per terra, uccisi senza motivo da altrettanto poliziotti, uno dei quali, il capo forsennato e ormai fuori controllo, è incarnato proprio da Will Poulter. Storia vera, verissima, anche se gli sbirri alla fine uscirono assolti dal processo.
Tutto cominciò quando da una finestra del motel furono esplosi da un irresponsabile balordo due o tre colpi con un’arma giocattolo. Pessima idea: Guardia nazionale e Polizia locale, temendo fosse un ennesimo cecchino, confluirono in massa e a quel punto la serata si trasformò in una specie di Bolzaneto. Percosse, torture, brutalità, umiliazioni, minacce, finte esecuzioni: infine la morte vera.
“Detroit”, secondo una struttura classica del cinema americano, presenta ad uno ad uno i vari personaggi, perlopiù afroamericani, per poi farli confluire in quel maledetto motel. Ci sono un aspirante cantante di soul col suo amico, un sorvegliante ingaggiato per difendere i negozi dagli “sciacalli”, un ex paracadutista appena tornato dal Vietnam, due disinvolte ragazze bianche dell’Ohio in minigonna, eccetera. Tutti innocenti, pacifici, forse un po’ irresponsabili, “colpevoli” solo di ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Frutto di una ricostruzione dei fatti scrupolosa, almeno così assicurano Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal, “Detroit” ricostruisce con stile simil-documentaristico, anche nella concitazione e nello stile, l’impazzimento collettivo che mise a ferro e fuoco la città della Ford. Grande lavoro del direttore della fotografia Barry Ackroyd e dello scenografo Jeremy Hindle, gli interpreti sono tutti bravi e convincenti, sia pure nella cifra survoltata; e tuttavia qualcosa non quadra nel film. Come nella storiaccia cupa che rievoca, del resto.
Michele Anselmi