L’angolo di Michele Anselmi
“Spero di essere stato breve” dice, e magari lo pensa pure, il direttore della Mostra di Venezia, Alberto Barbera, rivolgendosi al presidente Roberto Cicutto, che è seduto accanto e un po’ sorride. Breve? Più di settanta minuti, un elenco infinito, intessuto di aggettivi reboanti. Barbera, come gli piace fare da qualche anno a questa parte, presenta infatti, film per film, tutto il menù dell’edizione ravvicinata, in questo caso la 79ª, che si svolgerà al Lido dal 31 agosto al 10 settembre. Il tutto in streaming, dalla sede veneziana della Biennale.
Morale? Anche quest’anno la Mostra parla perlopiù italiano e inglese, lo sguardo è pressoché “occidentale”, essendo diventato abbastanza arduo reperire film asiatici di spicco o di altre cinematografie, a volte considerate “esotiche” o minori. D’altro canto, passato in parte l’incubo del Covid, assai presente nelle due ultime edizioni sottoposte a rigide restrizioni anche nei posti disponibili, la cine-kermesse veneziana tenta il rilancio sul piano del pubblico pagante e degli accreditati; sapendo sì, come suggerisce Barbera, che “i festival di cinema non sono bolle estranee alla realtà contemporanea”, ma senza dimenticare il glamour che non guasta, il tappeto rosso, le star, anche un’idea meno punitiva del cinema d’autore, se possibile con uno sguardo a Hollywood.
Gli italiani sono tanti, spalmati nelle diverse sezioni, a partire dal concorso composto da 23 titoli. Quasi tutti confermati i pronostici della vigilia: in gara, a difendere i colori nazionali, ci sono “Il signore delle formiche” di Gianni Amelio, “Chiara” di Susanna Nicchiarelli, “L’immensità di Emanuele Crialese”, “Bones and All” di Luca Guadagnino e “Monica” di Andrea Pallaoro (questi ultimi due girati negli Stati Uniti, in inglese, con attori americani di notevole nome).
Manca all’appello “Siccità” di Paolo Virzì, che infatti è stato spostato tra i fuori concorso, dove spicca un’altra nutrita pattuglia tricolore: da “In viaggio” di Gianfranco Rosi, sulle missioni all’estero di papa Bergoglio, a “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo, “una sorta di summa del pensiero ghezziano” (Barbera), in attesa di “The Hangin’ Sun” di Francesco Carrozzini, chiamato a chiudere la sarabanda il 10 settembre. E a non dire degli italiani variamente piazzati nelle due sezioni Orizzonti: “Princess” di Roberto De Paolis, “Ti mangio il cuore” di Mimmo Mezzapesa, “Vera” di Tizza Covi e Rainer Frimmel, “Amanda” di Carolina Cavalli, “Notte fantasma” di Fulvio Risuleo.
Quanto all’inglese, l’altra lingua forte da festival, perché favorisce l’attenzione mediatica e la presenza dei divi, non mancano i nomi di richiamo, anche se tutti avrebbero voluto vedere al Lido “Killers of The Flower Moon” di Martin Scorsese mentre “The Fabelmans” di Steven Spielberg ha preso la via di Toronto.
Però fuori concorso riappare Walter Hill con un western, “Dead For a Dollar”, che suona bene sin dal titolo; e l’instancabile Paul Schrader, al quale va uno dei due Leoni alla carriera, l’altro a Catherine Deneuve, ha già pronto un nuovo film, intitolato “Master Gardener” (non lo vedrà nessuno al cinema ma porta prestigio).
Quanto ai titoli del concorso, sottoposti a una giuria presieduta dall’attrice Julianne Moore, la Mostra può dirsi, sulla carta, moderatamente soddisfatta. Oltre ai cinque italiani ci sono cinque francesi, il che non guasta sul piano dell’amicizia italo-francese così poco presa in considerazione dallo sciovinista festival di Cannes; ma soprattutto fioccano nomi interessanti sul versante internazionale: Alejandro G. Iñárritu ha finalmente terminato il suo titanico “Bardo. Falsa crónica de unas cuantas verdades”, Andrew Dominik porta “Blonde” su Marilyn Monroe (ancora?), il novantenne Frederick Wiseman un breve film di finzione intitolato “Un couple”, Noah Baumbach l’atteso e corale “White Noise” che aprirà le danze il 31 agosto. In arriva anche una “sorpresona”, nei giorni prossimi.
E la politica, anzi la cronaca? Ecco l’instant-movie “Freedom of Fire. Ukraine’s Fight for Freedom” di Evgheny Afineevsky, oppure il documentario “Nuclear” di Oliver Stone; mentre, a ribadire una forte solidarietà verso i cineasti iraniani oggetto di censure e persecuzioni, il concorso sfodera addirittura due titoli che vengono da là, uno di Vahid Jalilvand e uno del più noto Jafar Panahi, attualmente in carcere.
E siccome Barbera non è “talebano” quanto il collega francese Frémeux, ecco anche due serie targate Netflix, che non guastano mai, entrambe danesi: “Kingdom of Exodus” di Lars von Trier e “Copenhagen Cowboy” di Nicolas Winding Refn. Pure un modo per riequilibrare la notevole presenza di Sky. Barbera, da questo punto di vista, è anche un fine costruttore di alleanze.
Michele Anselmi