Il diario americano di Roberto Faenza | Come fare un film a New York e sopravvivere
> Seconda puntata
Questa è la seconda volta che giro un film a New York. La prima è stata nel 1983 quando ho realizzato Copkiller (qui distribuito dalla New Line con il titolo di Corrupt), film con Harvey Keitel e il leader dei Sex Pistols Johnny Rotten (che nel tempo è diventato un cult specie nei paesi di lingua inglese).
Da allora a oggi le cose sono molto cambiate a fare cinema a New York è diventato molto più difficile, a causa soprattutto delle union che si oppongono in ogni modo alle produzioni intenzionate a impiegare tecnici e maestranze straniere, a differenza dei nostri sindacati, pronti a inginocchiarsi di fronte a qualsiasi produzione americana che arrivi in Italia. Il tema della reciprocità dovrebbe essere una battaglia da ingaggiare, perché non è giusto né leale che le produzioni americane possano far lavorare in Italia chiunque, dagli attori ai tecnici alle maestranze, mentre noi italiani o europei non possiamo far lavorare in America quasi nessuno. E’ la stessa politica che molti definiscono “imperiale”, la quale occupa nel mondo quasi il 90% degli schermi cinematografici mentre in America i film stranieri occupano una quota inferiore al 2%. In una delle prime riunioni di preparazione di questo mio nuovo film mi imbatto per la prima volta nella parola “clearance”. Alla riunione partecipa un team di avvocati ed esperti nel verificare tutto ciò che nella sceneggiatura possa essere oggetto di controversia o richieda specifiche liberatorie. Da noi uno è libero di girare in esterni, per esempio se voglio girare a Roma davanti al Colosseo nessuno mi verrà a chiedere la liberatoria. Idem a Piazza Venezia o per le vie di Via del Corso. Qui non è così.
Un edificio, per esempio un famoso grattacielo, può essere soggetto a copyright, un manifesto idem, una vetrina pure. Se voglio girare a Times Square e riprendere le immagini che passano sugli edifici devo prima chiedere le autorizzazioni agli aventi diritto. Insomma un incubo. Il team degli avvocati esamina alla lente di ingrandimento ogni riga della sceneggiatura e mette in guardia la produzione sui criteri da seguire. Un personaggio del mio film si chiama Barry Rogers. Il team fa una ricerca e si assicura che non vi sia nessuna persona con lo stesso nome di rilevanza pubblica che possa citarci per danni qualora si riconosca nel nostro personaggio e non gli piaccia cosa fa o cosa dice. In una scena del film squilla il telefono? La suoneria può essere soggetta a copyright, per cui prima sarà bene sondarne la licenza. Il protagonista preme un campanello? Se la targhetta porta un nominativo va prima eseguita la clearance. In un’altra scena fa una telefonata e compone un numero sul cellulare? Attenzione il numero dev’essere inventato e guai se appartiene a qualcuno, che potrebbe chiedere i danni alla produzione in quanto gli spettatori del film potrebbero chiamare quel numero per divertimento o magari per inviare messaggi osceni. In pratica tutto ciò che compare anche in un solo fotogramma del film può essere oggetto di contestazione, specie in America dove gli avvocati sono più numerosi delle formiche e dove chiunque può diventare milionario intentando le cause più azzardate.
Chi scrive una di queste cause le ha vinte quando nel 1970, vivendo a Washington D.C. e facendo parte dell’organizzazione del MayDay contro Nixon e la guerra in Vietnam, sono stato arrestato insieme a Jane Fonda, il famoso pediatra Benjamin Spock e una ventina di leader della manifestazione. Gettati nello stadio di Washington per giorni e tre notti, bombardati da gas lanciati dagli elicotteri della polizia, una volta usciti e schedati come dei criminali abbiamo intentato una class action contro il governo americano perchè arrestati senza aver commesso alcun reato, prima ancora di arrivare alla casa Bianca. Abbiamo affidato la causa all’American Civil Liberties Union, formata da agguerriti avvocati impegnati nel sociale e la causa è durata meno di un anno. Subito dopo il verdetto dei giudici, mi sono visto recapitare una busta del governo americano che chiedeva scusa per l’arresto e allegava un assegno circolare di $24.000, un regalo fantastico che mai mi sarei aspettato grazie al quale ho comprato la casa dove vivo a Roma.
Devo ammettere che ogni volta che torno in America spero che mi arrestino così da incassare altri cospicui assegni.