Il diario americano di Roberto Faenza | Come fare un film a New York e sopravvivere

Wrap party. Per alcuni il momento più importante della lavorazione di un film, quando terminate le riprese si fa festa grande.

Stranezze a Bleeker Street, la via più animata del Village: vedo una signora impellicciata con al petto un grande e stupendo pappagallo variopinto che si guarda bene dal volare via. Sempre che non gli siano state tarpate le ali.

Topi: ne è  piena New York, specie a Tribecca. Qualche anno fa si è avuta la stramba idea di sterminare i topi introducendo nelle fogne migliaia di voraci predatori: gli opossum. Lasciati liberi al fine di divorare i ratti. Il risultato nefasto è che ora sono gli opossum a riversarsi per le strade. Nasce così il problema di sterminare anche gli opossum, visto che si sono riprodotti a migliaia. E’ successo anche ai serpenti a sonagli con i tacchini. Nel nostro ufficio al Village troviamo un topo e chiamiamo l’exterminator per un pronto intervento. Arriva un giovane rasta giamaicano che piazza le sue bustine velenose cantando e muovendosi al ritmo di una canzone di Bob Marley. Paragona i topi a chi fa shopping. Dice che i topi visitano i nostri appartamenti e se c’è qualcosa che gli piace se lo prendono. Né più né meno come facciamo noi umani. Perchè accanirsi contro le povere bestioline, domanda l’exterminator? Legittima domanda, in fin dei conti i topi a lui danno da mangiare. Sembra il personaggio di un film. Prima di andarsene annuncia cantando che lo scopo della sua vita è risolvere i nostri problemi. Basta chiamarlo e lui interviene. Un po’ come Mr. Wolf, l’indimenticabile personaggio interpretato da Harvey Keitel in Pulp Fiction.    

Taxista ex marine. Quando salgo sul suo taxi mi vede salutare l’attore Harvey Keitel, con cui ho appena cenato e con cui anni fa ho girato a New York Copkiller. Anche lui, come il taxista, è un ex marine e porta sempre all’occhiello della giacca il distintivo. Alla fine della corsa, il taxista mi chiede qualche dollaro in più di mancia, dice per sua moglie malata. Va in pensione con il 50% della paga e non gli basta per vivere.

Ristoranti newyorkesi mille volte più chiassosi che una trattoria italiana affollata di domenica. Impossibile parlare se non a voce alta, spesso impossibile capirsi. Ma forse lo fanno apposta, specie quando non si ha nulla da dire.

Fare film richiede violenza, comando, inesorabilità. Pietà nessuna? Temo sia piuttosto vero o in gran parte. Wim Venders diceva che per fare un film bisogna armarsi più che di idee di avvocati senza scrupoli. E di recente Ben Affleck, che ha da poco diretto The Town, ha detto che non credeva che dirigere un film fosse impresa così ardua, peggio di andare in guerra.

Safety e security. Una paranoia, una ossessione. Nei film si mettono in sicurezza persino i fogli di polistirolo, per timore che possano cadere addosso a qualcuno. Come se potessero fare del male, leggeri come sono. Oppure quando dobbiamo fare un camera car, si chiede la scorta di due auto della polizia per controllare che non si disturbi il traffico ed eventualmente per fermarlo, ove occorra, durante le riprese. Persino salire su un banale cubo di legno richiede prima l’intervento della sicurezza. Nonostante il fastidio che tante misure di sicurezza possono creare durante le riprese è sicuramente una buona abitudine. Si facesse la stessa cosa in Italia, non avremmo tanti incidenti e morti sul lavoro.

Lavoro nero. E’ molto più frequente in USA che in Italia. Taxisti, camerieri, edili, domestici. Sono numerosissimi, molti di più di quanto si possa immaginare. Specie tra i lavoratori asiatici, ispanici, africani. Che ovviamente sono anche i meno protetti.

Mostri sacri. Se New York è un set difficile e pieno di impedimenti e restrizioni, specie dopo l’11 settembre, grande è il piacere di poter girare un film con una galleria di mostri sacri, tra cui vari premi Oscar da Ellen Burstyn (Oscar per Alice non abita più qui), che è anche a capo dell’Actors Studio, a Lucy Liu (scelta da Quentin Tarantino in Kill Bill) a Marcia Gay Hardenn (Oscar per Pollock), una delle registe preferite da Clint Eastwood. Per non parlare di Stephen Lang (il cattivo di Avatar), o di Peter Gallagher. Reso famoso da film e televisione, quando scende in strada è atteso dai fans per un autografo. Sinora ho avuto il privilegio e la fortuna di lavorare con attori come Marcello Mastroianni, Max Von Sydow, Harvey Keitel, Keith Carradine, Kristin Scott Thomas, Miranda Richardson… Mai però avevo avuto l’occasione di trovarmi di fronte, nello stesso film, a una galleria così imponente di mostri sacri. Deborah Ann Woll, per esempio, è la giovane star più “hot” del momento. E’ la protagonista di True Blood, la nuova serie sui vampiri. La vogliono tutti, da Bruce Willis  a Robert Duvall, che l’ha scelta nel film che sta dirigendo da regista. Anche il venticinquenne attore di colore, Gilbert Onwo, è a suo modo già famoso. Originario del Kenya, è uno dei primi africani ammessi nella prestigiosa e costosissima università di Yale con una borsa di studio valida 5 anni. Infine c’è Milena Canonero, la costumista che ha sinora collezionato 3 premi Oscar: per Barry Lyndon, Momenti di gloria, Marie Antoinette. Milena ha avuto la fortuna di essere stata scoperta da Stanley Kubrik, con cui ha poi  firmato quasi tutti i suoi film, da Clockwork Orange a Shining. Con me (inspiegabilmente unico regista italiano con cui ha lavorato) ha firmato i costumi di Mio caro Dr. Graesler e I Vicerè. In questo nuovo film ha funzione di produttore esecutivo, al fianco della nostra produttrice Elda Ferri. Inoltre supervisiona scene e costumi ed è sempre al mio fianco con una dedizione e una passione che mi sorprende ogni giorno. Di Milena vedi il ritratto che ho scritto in queste pagine del diario americano.

Messaggio che mando ad Avy Kaufman, la mia bravissima cast director in un momento di crisi. Avy lavora per i più importanti registi da Spielberg a Ridley Scott a Ang Lee e tanti altri ancora. Siamo preoccupati perché non troviamo l’attrice che deve interpretare il ruolo di Olivia, una trentenne adocchiata in treno dal padre del nostro giovane protagonista, un attempato playboy (uno spiritosissimo Peter Gallagher). Avremmo voluto scritturare un’attrice vista in scena a West Side Story, ma all’ultimo momento scopriamo che è straniera e non ha il visto di lavoro per un film ma solo per il teatro. Riporto la mail ad Avy in inglese. “Avy, don`t worry this is a crazy world. Iit`s like to be in war, every minute there might be a bomb, an attack, a new enemy. This is cinema today! I`m well equipped, full of arms of any kind, more then at the Pentagon. We`ll have the best Olivia. Kiss, Roberto”.

Sawyer il teenager figlio di Steven Spielberg, per non essere accusato di favoritismi, usa un altro cognome. Dovrebbe interpretare un piccolo ruolo con noi. Viene alle prove costumi ed è contento, ma all’ultimo momento la scuola dove è studente gli nega il permesso di assentarsi anche solo due giorni, a riprova della inflessibilità anche di fronte a un genitore tanto celebre. Vengo a sapere chi è veramente il ragazzo solo quando dà forfait. Altra prova di serietà. 

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