Il diario americano di Roberto Faenza | Come fare un film a New York e sopravvivere
L’America, uno stato fondato sul denaro. L’Italia una repubblica fondata sulla menzogna. Non so chi lo abbia detto, ma è un aforisma non troppo lontano dalla realtà.
Giudici eletti dal popolo. Mentre giro nella contea di Yonkers, nei pressi di New York, vedo tantissimi manifesti. “Relect Cerrato City Court Judge”,. “Elect Ewan Inlaw”… Come è possibile fidarsi di un giudice, direttamente eletto dai cittadini? Cosa potrà mai fare per compiacerli ed essere rieletto? E’ il retaggio dei tempi dei cowboy, quando i giudici venivano eletti dai coloni. Né potevano fare diversamente, non essendovi allora ancora uno stato. Ma che senso ha oggi affidarsi a giudici eletti politicamente? I quali spesso nulla sanno di legge e neppure di giustizia. Da noi almeno hanno studiato legge e passato un concorso tutt’altro che facile. E per fortuna non sono dipendenti dalla politica, anche se nessuno gli vieta di avere idee e preferenze. Sembrerà strano, ma nonostante le contraddizioni palesi, la giustizia americana funziona. E’ efficiente, rapida e molto pratica. Da noi invece, nonostante la struttura ampiamente garantista la giustizia non funziona. E’ una verità sotto gli occhi di tutti.
Orgoglio nero. Il presidente Obama ha risvegliato l’orgoglio del popolo afroamericano, sopito dai tempi di Martin Luther King e frustrato da tante vessazioni e discriminazioni. Grazie a Obama ora i neri americani si sentono “on the spot”. Li vedi sempre più numerosi, atletici, simpatici, intelligenti, pronti a lanciarsi nella mischia. Per non parlare delle loro bellissime ragazze che sfrecciano in bicicletta per le strade di New York. Da minoranza emarginata è in cammino per diventare passo dopo passo forse il meglio del paese che guarda avanti. Molti di loro ancora oggi si chiedono come sia possibile che l’America abbia votato un presidente di colore. Io stesso, che negli annni Settanta ho insegnato per tre anni in una università di neri, il Federal City College di Washington DC, non avrei scommesso un centesimo sulla elezione di Obama. Segno che non sono rimasto al passo con i tempi e non ho capito quanta capacità di stupire abbia il popolo americano.
Michael Bloomberg, il sindaco di New York si è dato una paga simbolica: 1 dollaro l’anno. Può permetterselo, essendo multimilionario. Il successo della sua azienda, specializzata in servizi finanziari, lo colloca tra i venti uomini più ricchi del Pianeta. Appartiene al partito repubblicano, ma le sue posizioni illuminate lo vedono schierato piuttosto tra i progressisti. Né si esclude che nelle elezioni del 2012 possa combattere per il posto di presidente contro Obama. Ogni sera appare in un programma via cavo e alla radio, dove risponde alle domande dei cittadini. E’ molto attento all’ecologia e all’ambiente. Per questo, sta aprendo una serie di parchi stupendi lungo il fiume Hudson, oltre ad alcune “spiagge”, specie dalla parte di Brooklyn Brook Promenade e Queens. Oltre ai parchi, sta costruendo decine e decine di chilometri di piste ciclabili lungo le arterie della città. Bloomberg paga di tasca sua per tenere aperti di domenica i musei cittadini. Severo con i minori, che non possono bere vino sotto i 21 anni e neppure fumare sotto i 19, se non in alcune aree ristrette. Il sindaco è anche contrario alla circolazione delle armi, che come si sa è ampiamente permessa in vari stati americani. Tant’è che dal Texas, stato ultra permissivo per la libera circolazione della armi, gli è giunta una minaccia: se capiti da queste parti, ti spariamo.
Incontro Eli Wiesel, Premio Nobel per la pace. Sono seduto al suo fianco, invitato a cena dal produttore John Heiman (suo figlio David produce Harry Potter ed è il produttore più ricco della storia del cinema). Wiesel ha 82 anni, è ebreo di origine rumena ed è tra i pochi bambini scampati ai campi di concentramento. Sua madre è stata uccisa a Birkenau in una camera a cas. Eli e il padre sono passati da quel campo prima al vicino Auschwitz, dove vivevano nella baracca insieme a Primo Levi, poi a Buchenwald, dove il padre è morto. Eli invece è stato salvato, ormai allo stremo, dalle forze sovietiche. Dopo la guerra viene trasferito in un orfanotrofio francese grazie alla politica illuminata di De Gaulle, che decise di educare e sostenere 400 bambini scampati all’Olocausto. E’ così che il piccolo Eli impara a scrivere in francese, la lingua che usa ancora per i suoi libri, diventati famosi in tutto il mondo, per lo più tradotti in inglese da sua moglie Marion. Nel 1963 Wiesel sceglie di diventare cittadino americano e si trasferisce a New York. Con Marion, attivissima e appassionata come poche, crea una fondazione per aiutare l’infanzia bisognosa e rafforzare i diritti degli esclusi. Entrambi credono in Obama e nel processo di pace in Israele, due stati divisi e autonomi. Wiesel insegna tuttora all’università di Boston. I suoi libri più noti sono probabilmente L’alba e La notte (dove racconta la sua vita nei campi di concentramento e il tentativo disperato di salvare il padre), oltre a vari atti per il teatro.
11 settembre. Giro una serie di scene al 32° piano di un grattacielo che si affaccia su Bryant Park nel cuore di Times Square. Stando così in alto mi viene un brivido pensando a cosa deve essere successo nelle menti di quelle migliaia di persone che stavano lavorando nelle due torri quel maledetto 11 settembre 2001, quando i grattacieli si sono sbriciolati in pochi minuti sotto l’attacco degli aerei kamikaze. L’incubo della sicurezza porta tutto e tutti a sentirsi in pericolo. Ecco perché entri in un palazzo e devi consegnare un documento di identità, farti fotografare, a volte persino lasciare le tue impronte.
Donne. Constato che è davvero altissimo il numero di presenze femminili che compongono la mia troupe. Direi che qui le donne sono la maggioranza. Persino il dolly è manovrato da una donna, una ragazza giovanissima, cosa che non ho mai visto fare in Italia, dove i macchinisti sono per tradizione maschi. Le troupe americane sono parecchio più numerose delle nostre. La mia, pur essendo un film a basso budget rispetto allo standard americano, è composta da 105 persone. Sono decine di persone che lavorano al tuo fianco e ti fanno capire che la figura del regista non è più quella di una volta, quando si sentiva sovrano. Ora tutti partecipano alla costruzione di quello che sarà il prodotto finale con funzioni un tempo sconosciute. Per cui oggi il regista è più simile a un direttore d’orchestra. Senza buoni musicisti, il suo talento, ammesso che ne abbia, porterà a poco. Cercando le location, andiamo a vedere gli uffici di Bernard Maddox, il genio della finanza ora in prigione per bancarotta. Fa impressione vedere nel suo grattacielo interi piani vuoti e centinaia di postazioni abbandonate. Penso ai tanti colletti bianchi giovanissimi e meno giovani che non sono più lì e hanno perso il posto di lavoro, mentre solo due anni fa erano omaggiati e invidiati in ogni parte del mondo.
L’incubo del regista. E’ l’orologio. I minuti scorrono implacabili e a perderci è solo il regista, che dovrà finire in fretta la giornata e gli mancherà sempre un po’ di tempo per fare un’ultima inquadratura, ripetere qualche scena. Il mio incubo è girare con l’orologio alla mano e vedere i minuti trascorrere senza poter fare niente per accelerare i tempi di lavorazione, che dipendono da decine di varianti incontrollabili. Che bello poter fare come Superman, quando per impedire la morte dell’amata si lancia sull’orologio dell’universo, porta le lancette indietro e la salva. Per far sì che tutti davvero si impegnino a lottare contro le perdite di tempo, che sono sempre presenti in ogni set, i produttori dovrebbero fare un patto con la troupe. Il principio sarebbe semplice. Come è noto, ogni minuto di lavorazione costa parecchio denaro. Se alla fine della giornata la troupe avrà guadagnato tempo, le verrà riconosciuto il valore monetario del tempo risparmiato. Ma se lo avrà perduto, allora pagherà di tasca sua. Vedi come si metterebbero tutti a correre e a rendere felice il regista!