Il diario americano di Roberto Faenza | Come fare un film a New York e sopravvivere
A proposito di Obama
A sfogliare le pagine dei quotidiani americani il ricordo della tragedia dell’11 settembre sembra più un fatto formale che un dramma ancora presente. Mentre lo scorso anno la commemorazione riempiva le prime pagine, quest’anno si trova circondata da un crescendo di notizie sulle difficoltà che sta incontrando l’amministrazione Obama. Nello staff del presidente regna l’inquietudine e un non più celato nervosismo. E’ sotto gli occhi di tutti lo spettro che si aggira nei dintorni della Casa Bianca. Si chiama “midterm elections”. Si tratta delle imminenti elezioni per rinnovare la Camera e il Senato. I sondaggi danno i democratici in netto svantaggio a favore dei repubblicani e gli stessi candidati del partito democratico guardano al loro Presidente come alla principale causa di una loro eventuale sconfitta. “Instant gratification”. Questo termine, mi dice un giovane ricercatore della Columbia University, serve a capire lo stato d’animo dell’elettore americano. E’ un elettore che non è abituato ad attendere. Fa parte dello spirito americano: pragmatico, chiede fatti, li vuole subito. Obama, così la pensano i suoi stessi elettori, non ha saputo ripagare la loro fiducia. Volevano essere gratificati con un successo immediato. Sono passati due anni dalla sua elezione, dicono, ma non si vedono i risultati. La troupe con cui sto girando il mio nuovo film è composta da un centinaio di persone, per lo più attorno ai trent’anni. Non ne conosco uno che non abbia votato per Obama, ma si dichiarano tutti insoddisfatti. Non dell’uomo, non del suo carisma, ma per il fatto che secondo loro appare ondivago e incapace di raggiungere i risultati promessi. Basta leggere il New York Times di queste ore, un giornale che pure ha sempre tifato per il Presidente eletto. Negli ultimi tempi non perde occasione per fargli le pulci. In prima pagina l’autorevole Matt Bai scrive che Obama “rischia di confondere gli elettori e non è la prima volta”. Lo critica per aver fallito le varie proposte economiche, incluso il pacchetto di 800 billioni di dollari all’indomani della vittoria elettorale. In pratica il New York Times sostiene che il Presidente non è stato sinora in grado di fronteggiare la gravità della crisi economica e non dà segni di saperla superare. La critica più presente in tutta la stampa che ha sostenuto Obama è di avere speso troppe energie nel progetto di riforma del welfare, incompresa dal suo stesso partito e da gran parte dell’elettorato, in un momento in cui ben altre sono le esigenze prioritarie. Chiedere agli americani di spendere anche un solo dollaro in più per la salute pubblica, quando di dollari ne hanno sempre di meno, è ritenuto dai commentatori un errore imperdonabile. Al cittadino che non risiede nell’illuminata New York o nella consumistica Los Angeles ma vive nell’America di mezzo, rurale o postindustriale, non interessa sapere che la soluzione della crisi potrebbe richiedere anni. Né gli interessa sapere che Obama ha promesso di ritirare i soldati dall’Irak e dall’Afghanistan. Nè che il terrorismo pare al momento dormiente. Né interessa la transizione dall’era industriale all’era digitale di Steve Jobs. Tantomeno gli interessa il grande sogno di un’America più giusta. “All’americano medio, mi dice un politologo di Yale, interessa contare ogni giorno quanti soldi ha in tasca. E di soldi al momento ne ha sempre meno”. Primum vivere deinde filosophari, suggerivano già duemila anni fa i saggi. Graham Bowley, altro noto commentatore del New York Times descrive in prima pagina lo stato d’animo del risparmiatore ai tempi di Obama. Va in banca per depositare i suoi risparmi e si sente dire che il denaro rende zero. Anzi, con le normali spese di conto corrente alla fine dell’anno scopre che non solo non è creditore, ma deve soldi alla sua stessa banca. Quando poi sei abbastanza benestante e lasci in banca 500.000 dollari in un deposito certificato, porti a casa sì e no 7.000 dollari l’anno, una miseria. Di tutto ciò, l’elettorato si è convinto sia responsabile Obama. Non ricorda il baratro finanziario creato da otto anni di amministrazione Bush. Non ricorda che le guerre in Irak e in Afghanistan le intraprese lui. Non ricorda che le spese folli per armare il Pentagono le ha suggerite il guerrafondaio Dick Cheney. L’elettore pensa solo, spiega un consulente della Offit Capital Advisors, che “se hai speso la tua vita a essere prudente e a risparmiare per quando andrai in pensione, adesso scopri che i tuoi risparmi sono carta straccia”. Obama, consapevole del calo di consensi e pressato dal suo stesso partito, si sta affrettando a lanciare un nuovo piano di salvataggio economico: 500 milioni di dollari per strade, ferrovie (in America un vero e proprio disastro, peggio che in Italia) e altri progetti di iniziative pubbliche. Apriti cielo: i repubblicani sono partiti lancia in resta e stanno scaraventando sul Presidente un’ondata di ingiurie. Sostengono che in un momento così grave bisogna riempire i frigoriferi e gli armadi e non programmare nuove spese che si convertiranno inevitabilmente in nuove tasse. A nulla serve agli esperti di Obama pubblicare oggi un rapporto che documenta come la riforma del welfare per 32 milioni di persone, oggi senza assicurazione, sia a costo zero per lo stato. Non ci crede nessuno. In questo clima di insoddisfazione e scetticismo si inseriscono gli oppositori del Presidente, pronti a combattere la battaglia per riconquistare Camera e Senato. Anche Bill Clinton nel secondo mandato si era trovato a governare senza maggioranza, ma i suoi rapporti con l’elettorato erano eccellenti, non così tiepidi come quelli di Obama. Quello che più spaventa in una crescente campagna di odio contro il Presidente è che da più parti viene vissuto come un nemico dell’America, uno straniero nato in Africa, uno che molti continuano a pensare sia di stretta fede musulmana, in parole povere un parente stretto dei terroristi. Fa impressione vedere Obama a Cleveland contestato da una fila di uomini e donne armati di striscioni con la sua immagine e sotto, a caratteri cubitali, la scritta MARXISM. Per non dire di altri manifesti orribili, con la scritta “Obama, go back to Africa”. Un socialista, un marxista, insomma un comunista. Vedi l’ultima copertina di Newsweek, che accomuna terrorismo, socialismo, idealismo. Prima di Obama il nemico degli americani è stato di volta in volta la Russia, il Vietnam, la Cina, Cuba. Ora molti americani il nemico lo vedono in patria, seduto alla casa Bianca. Non era mai accaduto che si giungesse a dubitare che il Presidente avesse i titoli anagrafici per essere eletto. Ora la campagna d’odio nei suo confronti è alimentata da gente irresponsabile, che non si rende contro di creare un terreno favorevole a pericolosi colpi di mano. Un docente della NYU mi ricorda che Kennedy venne assassinato in un momento in cui la temperatura di odio nei suoi confronti era salita al massimo. Chiedo se Obama rischi davvero. Mi risponde che si stupisce che non vi siano stati ancora attentati. Le misure di sicurezza per proteggere il Presidente si stanno facendo ossessive. Posso testimoniarlo di persona. Pochi giorni fa Obama è venuto a cena a New York sotto casa dove abito in MacDougal Street, nel Village. L’intera città è stata invasa da agenti federali, da poliziotti armati sino ai denti, da agenti dell’FBI a ogni angolo delle strade. Dall’alba sino a notte tarda le auto non potevano praticamente circolare. Invece di essere soddisfatti di vedere protetto il proprio Presidente, una valanga di critiche si sono abbattute sulla Casa Bianca. “Adesso ci tocca anche pagare di più per la sicurezza del Presidente”, hanno scritto i media a lui avversi. E hanno aggiunto: “se fosse un vero americano non avremmo tutte queste sciagure”.