Uscita di Disney+ Star, simultanea con le (poche) sale riaperte, “Nomadland” è l’avventura on the road di Fern, interpretata dalla sempre versatile e amabile Frances McDormand, qui vincitrice del premio Oscar come miglior attrice protagonista, insieme alla regista Chloé Zhao e il film stesso. La Zhao, che ha uno stile inconfondibile che sposa componenti narrativamente intimiste e familiari, dunque emotive, ad un look dalla fotografia spesso fredda e distaccata, crepuscolare, con quel tocco di realismo sociale guarda caso appartenente alla cinematografia cinese, con “Nomadland” intesse ancora una volta dopo “The Rider” un’ode al cinema d’autore americano. Ciò che rende “Nomadland” un film molto statunitense è lo spirito nomade reso perfettamente dalla vicenda narrata. Se hai qualche problema, impacchetti la tua roba e ti sposti! Tantissime sono inoltre le persone che si sono ritrovate a non avere una fissa dimora e a vivere in camper/van pur lavorando e avendo una vita. Non c’è nulla di innovativo o estraneo in ciò, se non il fatto che il cinema statunitense molto di rado ci abitua a questo tipo di storie, né tanto meno a questo modo di narrare così rarefatto.

Fern è una vedova, esattamente come lo era Jack Nicholson in “A proposito di Schmidt”, che si è sentita di cambiare, partire alla ricerca di qualcosa, forse semplicemente se stessa. Al contrario del danaroso Schmidt che comprava una mobile home per avventurarsi nei suoi pellegrinaggi, Fern ha pochi soldi, vive e gira in un van “scassato” e quindi sarà costretta a vivere momenti di estremo disagio, con pochissime persone su cui fare affidamento. Nemmeno la comunità di hippy nelle Badlands, capitanata da un santone, può davvero aiutarla. Così, se nel primo atto gli eventi sembrano susseguirsi senza particolare soluzione di continuità, in nome anche della collettività rappresentata, man mano che l’epilogo si avvicina, il film pone la donna davanti a difficoltà più decisive, come la rottura del suo veicolo e all’estrema solitudine – viene in mente anche un po’ “Una storia vera” di David Lynch. Costretta non solo a tornare da dove era venuta per chiedere aiuto alla sorella, ma a fare anche un viaggio interiore dentro la propria anima addolorata e solitaria, Fern è ancora giovane per morire, ma è circondata sempre da malattia e morte. La sensazione, data dallo struggente finale musicato come tutto il resto del film da Ludovico Einaudi, è quella che Fern, senza eredi né più un singolo bene in suo possesso, si senta effettivamente sul viale del tramonto. Quel luogo dove tutto ha inizio e da cui proviene, Empire, è la “città del cartongesso” fallita, ma anche simbolo dell’impero capitalista sempiterno eppure sempre contraddistinto dalle sue crepe e fragilità, che in qualche modo mette in moto tutta la storia di Fern, volto di un’America in completo decadimento incarnato perfettamente dalla McDormand. La donna fa idealmente ritorno in questo luogo, anche per motivi di lavoro, per poi scomparire di nuovo nel desertico spazio che la circonda in un epilogo interlocutorio.

Il coraggio di chi ha realizzato “Nomadland” (la McDormand ha co-prodotto) è di mettersi dalla parte di chi la crisi economica e personale la vive davvero. E quando mai il cinema hollyoodiano fa ciò, quando mai è stato così vero e senza fronzoli? Quasi mai. Il fatto di mettere un film per niente popcorn movie su una piattaforma principalmente per famiglie e d’intrattenimento come Disney+ è un dato significativo e importante, oltre che legato ai diritti di distribuzione. Purtroppo da tutta questa storia ne escono male gli esercenti che, in un momento di rientro nella sala cinematografica in cui c’era bisogno di esclusività per riportare le persone al cinema, si trovano costrette per logiche comprensibili a distribuire gli stessi film che tuttavia la gente ha già visto a casa, come sta accadendo anche per “Mank” di David Fincher.

Furio Spinosi