L’angolo di Michele Anselmi

Poco importa che “Domani è un altro giorno” di Simone Spada sia il remake di un film spagnolo uscito in Italia nel 2016. L’originale “Truman. Un vero amico è per sempre”, diretto da Cesc Gay, incassò da noi appena 330 mila euro, di sicuro avrebbe meritato di più, ma così andò purtroppo; sicché non sorprende che il produttore Maurizio Tedesco abbia ripreso in mano la toccante storia per farne una versione tutta italiana, nelle sale da oggi giovedì 28 febbraio con Medusa.
Ci sono remake e remake, questo mi pare venuto bene. Perché gli sceneggiatori Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo hanno trattato la materia originale con rispetto, prendendo tutto quello che c’era da prendere (ed è tanto); perché il regista Simone Spada non addolcisce il tema della malattia pur estraendo momenti di commedia dalla vicenda struggente; perché i due interpreti Valerio Mastandrea e Marco Giallini non fanno troppo rimpiangere, pur nella diversità di lingua e ambientazione, gli originali Javier Cámara e Ricardo Darín.
Siamo a Roma, non più a Madrid. Dove arriva dal Canada, piuttosto stropicciato, il taciturno e riservato Giuliano. Il romano doc vive da anni a Cat’s Eye, insegnando robotica, bravo padre e marito. Perché è volato dalle parti di Colle Oppio? Perché Tommaso, il suo più caro amico di gioventù, un attore vitalista ed estroverso, impegnato come Valmont nelle ultime repliche teatrali di “Le relazioni pericolose”, ha deciso di non curarsi più. Basta con la chemioterapia e i consulti medici, meglio affrontare in faccia la morte sistemando le cose prima di intraprendere “il lungo viaggio”.
I due hanno quattro giorni da passare insieme; e ne succederanno di cose, in una sorta di pellegrinaggio nella memoria che s’intreccia con le incombenze pratiche: l’amatissimo cagnolone Pato (un omaggio a Roberto “Pato” Moure) da sistemare con cura perché non resti solo; il figlio che studia a Barcellona, forse ignaro forse no, da rivedere un’ultima volta; l’agenzia delle pompe funebri da pagare per tempo.
Triste, solitario y final? Forse no. Il valzer degli addii si trasforma in una quieta, anche saggia, resa dei conti dei due amici con le proprie esistenze, tra cose mai dette o forse dette male, parentesi buffe o malinconiche, sguardi complici riguardo al sesso o alla condizione del “seduttore”.
“Se un amico non mi invita al suo compleanno non importa, ma se non condivide con me un grande dolore allora mi offendo”. La frase di Oscar Wilde, fatta propria dal regista e messa in bocca all’indecifrabile impresario teatrale, racchiude un po’ il senso del film, che si incammina meditabondo nelle strettoie dell’esistenza, cogliendo qua e là il lato comico della tragedia, in un gioco di sguardi e sbuffi, accenti romaneschi e ricadute sentimentali, passeggiate randagie e situazioni imbarazzanti. Perché Giuliano, da attore consumato e cinico, sbatte in faccia a tutti il suo tumore per vedere l’effetto che fa, vuole provocare, ma anche su quel versante riceverà qualche lezione.
Mastandrea e Giallini, nei ruoli rispettivi di Tommaso e Giuliano, vanno sul sicuro, essendo amici anche nella vita, ma non col pilota automatico, e quindi risultano credibili, puntuali nel restituire la gamma degli umori che attraversano quelle ore passate insieme; in parti di contorno, ben cesellate, compaiono Anna Ferzetti, Andrea Arcangeli, Blas Roca Rey, Barbara Ronchi, Renato Scarpa.
Il titolo italiano viene dalla canzone che fu resa famosa da Ornella Vanoni e ora torna, ad amplificare emotivamente il finale, nella versione non proprio entusiasmante di Noemi. Dato l’argomento io avrei messo meno musica, tenuto un registro più asciutto, insomma mi sarei fidato dei silenzi e dei vuoti. Ma pare che sia impossibile nel cinema italiano.

Michele Anselmi