L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

E pensare che già nel 1999 due esperti italiani, Giuseppe Pimpinella e Renato Bestini Malgarini, su incarico dell’Agenzia europea del farmaco, avevano denunciato i gravi rischi per la salute connessi all’assunzione del Mediator, il medicinale francese a base di norfenfluramina nato come antidiabetico ma usato soprattutto per ridurre l’appetito e perdere peso. Un campanello d’allarme preciso, e tuttavia non se ne fece nulla, benché l’azienda produttrice francese, Servier, fosse già stata messa sulla graticola a causa dell’Isoméride, un altro farmaco, simile, dimostratosi letale e quindi ritirato nel 1997.
Emmanuelle Bercot, regista di film pregevoli come “Student Services” e “A testa alta”, riapre ora il caso Mediator con “150 milligrammi”, nelle sale da giovedì 9 febbraio con Bim. Certo l’argomento non è allegro, tanto meno sexy, e tuttavia ci sono molte sfumature di nero in questa storiaccia che mette sotto accusa la sanità transalpina. Ci vollero due anni, dal 2009 al 2011, e purtroppo tanti morti (più di mille), perché lo scandalo scoppiasse, rivelando l’inadeguatezza irresponsabile delle istituzioni di controllo, il potere pervasivo della casa farmaceutica, anche la distrazione dei mass-media, almeno in un primo tempo.
Siamo, per schematizzare un po’, tra “Erin Brockovich – Forte come la verità” e “Zona d’ombra – Una scomoda verità”, e forse non è una caso che nei due sottotitoli torni la stessa parolina: verità. Difficile da scovare quando hai tutti contro, specialmente aziende capace di schierare formidabili uffici legali. Ricorderete la tosta segretaria Julia Roberts e l’onesto anatomopatologo Will Smith, decisi a non farsi mettere i piedi in testa; qui è la vibrante attrice danese Sidse Babett Knudsen a incarnare Irène Fachon, la risoluta pneumologa dell’ospedale universitario di Brest che per prima scoprì un legame fra l’assunzione del Mediator, commercializzato da trent’anni in Francia, e il decesso in seguito a micidiali valvulopatie cardiache di alcuni suoi pazienti obesi e diabetici.
In originale si chiama “La fille de Brest” questo film che non è solo di denuncia, anche se fa nomi e cognomi e non risparmia nessuno. Nell’arco di quasi 130 minuti, tra successi e sconfitte, dettagli realistici e suggestioni oniriche, “gole profonde” e prove cliniche, Bercot ricostruisce la sfida titanica ingaggiata dalla dottoressa insieme a un piccolo team di colleghi. Combattiva, vitale, eccentrica, brava madre di tre figli, amata dal marito che la spinge a non mollare: Irène Fachon è di sicuro un’eroina dei nostri tempi, ma il film la ritrae senza retorica, suggerendo anche i difetti caratteriali, la torsione ossessiva del suo agire, la naturale paura di perdere tutto.
Non è un capolavoro “150 milligrammi”, a tratti la tensione investigativa cala, gli inserti musicali suonano pleonastici, e certo le insistite sequenze in camera operatoria o alla Morgue spingono volentieri lo spettatore a chiudere gli occhi. Ma c’è tutto quello che ti aspetti da un film del genere (intuizioni, pressioni, suspense), e alla fine non puoi fare a meno di seguire con trepidazione la corsa a ostacoli intrapresa dalla dottoressa. Che l’attrice danese, la stessa che nel notevole “La corte” faceva innamorare il giudice bizzoso Fabrice Luchini, restituisce con ammirevole bravura, parlando un ottimo francese nella versione originale e colorando di dettagli umanissimi il personaggio.
PS. Emmanuelle Bercot avrebbe voluto fare il medico, poi la sua vita è andata da un’altra parte. La passione è di famiglia, essendo il padre chirurgo.

Michele Anselmi