Esce domani, giovedì 15 settembre, dopo l’anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, il nuovo film di Emanuele Crialese, “L’immensità”. Molto si è parlato, dal Lido, del versante autobiografico che contraddistingue questo film personale, a lungo ritardato, certo sofferto, che arriva a undici anni da “Terraferma”. Lo stesso Crialese, dopo aver confessato ai giornalisti di essere nato femmina, col nome di Emanuela, ha spiegato quanto c’è di doloroso e personale in questa storia. A me il film, targato Wildside e Warner Bros, non pare affatto una riuscita, ma è anche vero che illustri critici, uomini e donne, hanno invece apprezzato. Quindi, nel dubbio, consiglio di andare a vedere “L’immensità”, magari mi sono sbagliato io. Riporto di seguito, per comodità, quanto ho scritto pochi giorni fa dalla Mostra, dove il film era in concorso, per Cinemonitor e Facebook.
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Con le debite eccezioni, certi film, se pescano troppo nel vissuto personale del regista, forse sarebbe meglio non farli. Tuttavia Emanuele Crialese, classe 1965, scrive nel presentare “L’immensità”, in concorso a Venezia: “È sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. Essendo un film sulla memoria, aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza diversa”.
Distanza e consapevolezza che poco vedo in questa storia dalle dichiarate rifrangenze autobiografiche; del resto è lui stesso a rivelare nelle interviste da prima pagina di essere nato femmina, col nome di Emanuela. Il titolo viene da una celebre canzone di Don Backy del 1967 che torna solo sui titoli di coda, non cantata da lui. Già Nino Manfredi la canticchiava con cadenza burino/marchigiana in “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, solo che lì c’era da divertirsi, qui no.
Crialese, undici anni dopo “Terraferma”, firma un film che forse fa un po’ il verso a certe atmosfere di Pedro Almodóvar, con una punta di Todd Haynes, tra interni colorati e musiche da hit-parade, immergendo il tutto nella Roma altoborghese di metà anni Settanta. Qui, in un palazzo dal quale si vede il Cupolone, vivono i benestanti Clara e Felice con i loro tre figli, la più grande dei quali, la dodicenne Adriana, rifiuta di sentirsi femmina. Infatti porta un taglio di capelli da ragazzo, indossa un “chiodo” di pelle rossa, nasconde il seno nascente, insomma vive con sofferenza nome e identità sessuale. Ma tutta la famiglia è “disfunzionale”: il padre siciliano è un puttaniere che ha appena messo incinta la segretaria, la madre spagnola, bella e ribelle, è sempre a un passo dalla crisi di nervi, quanto ai due fratellini di Adriana uno fa la cacca dietro una porta, l’altra gioca col cibo senza mangiare.
S’intende che tra Adriana e sua madre si sviluppa un legame forte, di mutua complicità, ma il contesto è perbenista, ipocrita, falso, sicché alla ragazzina non resta che trovare scampo attraversando il metaforico canneto al di là del quale vive una coetanea zingara, una sorta di “amica geniale”.
Il film, un po’ mélo fosco e un po’ romanzo di formazione, gioca molto con l’aria del tempo, specie con le canzoni che arrivano dalla tv: ecco Celentano e Raffa che si dimenano an televisione il suono di “Prisencolinensinainciusol”, ecco Johnny Dorelli e Patty Pravo che duettano languidi sulle note di “Love Story”; e ogni volta Adriana – segue fantasia in bianco e nero, con playback – immagina di essere il cantante della situazione mentre la mamma Clara diventa la partner bionda.
A me pare tutto abbastanza esornativo, a partire da quel balletto in cucina che arriva, immancabile, pochi minuti dopo l’inizio, con mamma e figli che cantano “Rumore” sempre della Carrà. Ho la sensazione insomma che, a forza di rinviare il film sulla propria adolescenza, Crialese non sia riuscito a combinare gli elementi – umani, sociali, psicologici – del puzzle esistenziale, procedendo per trovate e trovatine: alcune fortemente drammatiche, altre legate allo spirito del tempo con accurata ricostruzione d’ambiente (si sente pure la pubblicità dell’Amaro Cora). Ma sono sicuro che il film molto piacerà al pubblico femminile.
In questo contesto, ambizioso sul piano delle intenzioni pop ma un po’ fragile su quello drammaturgico, neanche Penélope Cruz, brava a recitare in italiano, può più di tanto nel ritrarre la sua Clara: moglie fragile e tradita che piange vedendo “Il dottor Zivago”, è estranea a quel mondo bigotto, da scuola religiosa, nel quale si sente come imprigionata. Vincenzo Amato fa il maschio insensibile e manesco che non sa essere padre, mentre l’esordiente Luana Giuliani incarna l’adolescente Adriana, chiusa in un corpo che non sente suo, indocile e sensibile, col sogno d’essere Johnny Dorelli sul palco di Sanremo.

Michele Anselmi