Dorian Gray 

Un`opera gotica piena di sangue e vicoli londinesi, tra Sweeney Todd e Jack lo Squartatore. Troppo splatter, ricolma di eccessi ed effetti speciali per essere completamente riuscita. Oliver Parker si cimenta con il classico, unico romanzo di Oscar Wilde. Il regista che aveva già adattato per il grande schermo due commedie del geniale irlandese “Il marito ideale” e “L’importanza di chiamarsi Ernesto” fa di Dorian Gray una sorta di vampiro: immortale e perfetto, bello e dannato.

Colin Firth veste i panni del pigmalione, cinico voyeur, Lord Henry Wotton. Esageratamente invecchiato da un trucco infelice (pesanti barba e baffi) semina aforismi e battute a piene mani, convincendo solo a metà ma non per sua colpa. Non ha quella leggerezza beffarda che possiede il personaggio del romanzo, diviso tra amore e odio nei confronti del bellissimo Gray. Il ruolo del protagonista, volto angelico-anima nera è affidato a Ben Barnes (già Principe Caspian nelle Cronache di Narnia) giovane e incantevole promessa inglese. Ben Chaplin è il pittore Basil Hallward, terzo lato del triangolo, innamorato del quadro e sedotto dalla bellezza di Dorian.

Lo sceneggiatore si prende la libertà di creare il personaggio di Emily Wotton, figlia di Lord Henry, assente nel romanzo. La ragazza, ben resa da Rebecca Hall, suffragetta e fotografa, sveglia e arguta, entra in scena nel finale.

La mano di Parker è più sicura ed elegante nei quadri che mostrano la patinata buona società britannica dell`epoca. Vacua e insulsa, gradevole in superficie, cela in realtà un volto oscuro, marcio e corrotto. Storia modernissima che pare godere, come il protagonista Dorian Gray, di un`inquietante eterna giovinezza.  

 

Francesca Bani