La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor
Peccato. “Downsizing” poteva essere un gran film, e per due terzi tale è, purtroppo si perde nell’ultimo atto, smaterializzandosi tra fiordi norvegesi, apocalissi annunciate e nuove Arche di Noè, lasciando un senso di quieta delusione. Pochi applausi, neanche convinti, alla proiezione mattutina per la stampa della nuova creatura di Alexander Payne, scelta dal direttore Alberto Barbera per inaugurare la 74ª Mostra (magari, invece, il pubblico in Sala Grande impazzisce). Payne è regista brillante ed eclettico, non fa un film uguale all’altro. Il mio preferito è “Paradiso amaro”, ma anche “A proposito di Schmidt”, “Sideways” e “Nebraska” non sono male. Con “Downsizing” il tema da fantascienza prossima ventura è dichiarato già nel titolo, che significa “riduzione”: in questo caso, miniaturizzazione. Un classico del genere.
Alzi la mano chi, oggi attorno ai sessant’anni, da bambino non ha eletto “Viaggio allucinante” tra i film del cuore? E si potrebbero citare, tra i tanti, anche “Radiazioni Bx: distruzione uomo”, “Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi”, pure il recente “Ant-Man”. Ma bisogna riconoscere che Payne e il suo sceneggiatore Jim Taylor affrontano l’argomento da un punto di vista del tutto inedito, anche sorprendente. “Una satira sociale di dimensioni epiche, con protagonisti alti dodici centimetri” sintetizza il regista americano a proposito del film. Il quale immagina che, sulla scorta di un riuscito esperimento messo a punto da scienziati norvegesi, l’uomo moderno possa ridurre la propria taglia, in una scala da 2.744 a 1. Si resta uguali nelle fattezze, a patto di aver prima rimosso capsule dentali e placche ossee altrimenti tutto esplode, e naturalmente la vita dei neo-lillipuziani conosce un considerevole risparmio: meno cibo, meno spazio, meno benzina, meno vestiti, meno consumi, meno energia.
Il 3 per cento della popolazione mondiale si converte alla “riduzione”, e tra questi c’è una felice coppia sposata di Omaha (Nebraska), i Safranek, cioè Matt Damon e Kristen Wiig. La banca non concede loro il mutuo desiderato, così, stanchi di stringere la cinghia, i due vendono tutto e si fanno rimpicciolire: li aspetta il magnifico mondo di LeisureLand. Solo che non tutto va come previsto, solo lui, Paul, si ritrova miniaturizzato nella sontuosa magione alta come uno scatolone e sarà l’inizio di una strana odissea ricolma di sorprese e incontri.
Non storcete il naso, perché incanta il modo con il quale Payne racconta i due mondi paralleli, appunto dei “minuscoli” e dei “giganti” (cioè i normali). Sul filo di una parabola ben temperata, a tratti assai divertente, scopriamo che l’invidia nei confronti dei miniaturizzati, scopertisi improvvisamente ricchi rispetto alla vita precedente, si traduce in rancore sociale e delegittimazione civile, per la serie: quanto vale il loro voto? Ma anche a LeisureLand non tutto è come sembra: dietro la superficie liliale e privilegiata si staglia una realtà classista, nascosta da una specie di muro, che oscura alla vista dei ricchi decine di container popolati di miserabili, malati, barboni, immigrati. Tra questi una vietnamita ribelle che fu incarcerata e rimpicciolita in patria, e ora, vistosamente zoppa, fa le pulizie per campare e aiuta come può, da buon cattolica, i suoi simili. Che dite: nascerà qualcosa con il sensibile Paul? Hong Chau, appunto l’asiatica, e Christoph Waltz, nei panni di un serbo imbroglione che ama la “dolce vita”, completano il cast di una commedia inventiva e arguta, anche maliziosa, finché si resta dalle parti del Sogno Americano. Poi tutti si trasferiscono in Norvegia, là dove nacque la colonia originale dei miniaturizzati, e anche il film diventa piccolo piccolo. Nell’ansia di dire troppo finisce col non dire nulla.
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In ogni caso sempre meglio di “Nico, 1988” di Susanna Nicchiarelli, chiamato a inaugurare la sezione Orizzonti (anch’essa competitiva). Produttivamente italiano ma girato in inglese, il film è il terzo lungometraggio della regista romana, classe 1975, che piacque a tutti con “Cosmonauta” e a pochi con “La scoperta dell’alba”, dal romanzo di Veltroni. Cantante, attrice, modella, animatrice dei Velvet Underground, in buona misura “icona” di un certo maledettismo gotico tra fine anni Sessanta e primi Settanta, Nico – al secolo Christa Päffgen, tedesca di Colonia – morì misteriosamente a Ibiza nel 1988. Si spiega così l’anno inserito nel titolo del film. È una Nico già 47enne, in parte dimenticata dal pubblico, appesantita ed eroinomane, strappata al figlio Ari, quella che da Manchester, dove s’è trasferita, parte per una scalcinata tournée organizzata dal manager innamorato di lei. La band raccogliticcia non funziona, lei fa scenate in pubblico e ha bisogno costante di droga per carburare sul palco, la data di Anzio sarà un disastro.
L’attrice danese Trine Dyrholm è brava nel restituire gesti, allucinazioni e atteggiamenti di quella che fu definita “musa di Andy Warhol”; il film, costruito come un malinconico road-movie, non è sentimentale o indulgente nei confronti del mito, però avanza a fatica, gioca con l’aria del tempo senza riuscire a restituirla, tutto è molto esteriore (abiti, auto, acconciature).
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Si fatica a prendere sul serio anche il documentario che William Friedkin, a quasi mezzo secolo dal suo memorabile “L’esorcista”, dedica al vero esorcista padre Gabriele Amorth, scomparso a 91 anni nel 2016. “The Devil and Father Amorth” recita il titolo del lavoro, girato in buona misura in Italia e accolto tra i “Fuori concorso non fiction”. La curiosità sta nel fatto che il regista americano, in scena anche come intervistatore, riuscì ad ottenere dal famoso religioso italiano il permesso di filmare un esorcismo nei confronti di una sedicente “posseduta”, tal Cristina, giovane architetta di Alatri. In effetti il rito fa una certa impressione, soprattutto perché la trentenne indemoniata, pur senza raggiungere i noti eccessi di Linda Blair nel film, sembra davvero abitata dal Male, sprofondata in una sorta di trance vigile che scatena voci minacciose e reazioni violente.
Crederci? Non crederci? Friedkin mostra l’esorcismo romano a medici e psichiatri americani, e nello stesso tempo rende omaggio al vecchio prete italiano che urla a Satana (dentro Cristina): “Non vali una cicca”. Qualcuno ha sorriso in sala, e tuttavia ha ragione Friedkin quando spiega: “Non posso che definire questa esperienza sconvolgente, un viaggio esplorativo, la chiusura di un ciclo cominciato oltre quarantacinque anni fa”.
Michele Anselmi