L’angolo di Michele Anselmi

Un “Selfie” lungo 78 minuti, che riscatta un po’ l’uso di quella brutta parolina e segna una nuova frontiera espressiva, o perlomeno sperimenta una diversa forma di racconto senza cadere nelle trappole emotive del cinema “partecipato”. Esce giovedì 30 maggio in una ventina di sale, quattro delle quali a Roma (c’è anche l’Apollo 11 all’Esquilino), il documentario di Agostino Ferrente; distribuisce Istituto Luce Cinecittà, producono Arte France e Magneto. Un film girato interamente con l’iPhone, e non sarebbe una novità, ma usando come prospettiva esclusiva quella dell’autoscatto, anzi dell’autovideo: con gli “attori” che si mostrano come riflessi in uno specchio, facendo entrare il contesto alle spalle nell’inquadratura. La metafora estetica, a volercela trovare, è chiara; ma direi che l’escamotage messo a punto dal regista foggiano, classe 1971, è onestamente messo al servizio dei personaggi, che poi sono persone, chiamate a interpretare sé stesse e insieme a filmarsi secondo opzioni di gusto personale.
I due “attori” sono Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, avevano sedici anni all’epoca delle riprese, nel 2017, e il film li “cattura” durante una soffocante estate napoletana, mentre tanti sono in vacanza per sfuggire ai 40 gradi. Perché proprio loro? Perché conoscevano bene Davide Bifolco, un loro coetaneo ucciso da un carabiniere, con un colpo di pistola alla schiena, dopo essere stato scambiato per un latitante.
“Una storia sbagliata”, per dirla con De André, apertasi con la morte assurda di un adolescente innocente e finita con la morte anche del fratello Tommaso, a causa di un infarto dopo la mite pena inflitta allo sparatore (per questo c’è il patrocinio di Amnesty International). Il tutto nel Rione Traiano, non proprio dei più rassicuranti di Napoli, tra miseria, disoccupazione, spaccio, piccola criminalità e case “sgarrupate”.
Alessandro e Pietro sono amici, diversi e complementari: l’uno fa il barista, è magro, sente la mancanza del padre separato dalla mamma, non vuole frequentare brutti giri; l’altro vorrebbe fare il parrucchiere, è “chiattulello”, benvoluto dal padre, non insensibile alle balordaggini armate di una specie di gang motorizzata. Ferrente non “subappalta” il film ai due protagonisti scovati un po’ per caso, e anzi li guida, o meglio li asseconda, pur mantenendo un certo filtro, in modo che Alessandro e Pietro possano raccontarsi seguendo una sorta di partitura drammaturgica, a tratti s’intende improvvisata, figlia di eventi o sensazioni. Il tutto montato con una certa cura, senza mutare la prospettiva, secondo un procedimento che l’autore definisce così: “La mia nuova ossessione era raccontare gli sguardi di questi ragazzi, concentrandomi non su quello che vedono, che oramai tutti conosciamo, ma sui loro occhi che guardano”.
L’esperimento è riuscito. Perché ne esce un ritratto non convenzionale di quei quartieri popolari, fors’anche del “bello” che c’è dietro l’incuria, la violenza, la distrazione delle istituzioni. Il merito maggiore, naturalmente, va ascritto ad Alessandro e Pietro, che si mettono in gioco senza intenti esibizionistici, mostrandosi per quelli che sono, “recitando” quel po’ che serve per dare forza alla rappresentazione.
Il cine-autoscatto sfodera momenti davvero intensi, anche toccanti, inclusa la non banale spiegazione della poesia leopardiana “L’infinito”, di cui ricorre in queste ore il bicentenario, fornita dal barista, quasi nel rimpianto di aver dovuto lasciare gli studi. Ma “Selfie”, nel suo peregrinare sotto la calura, tra brutti pensieri e serenate paterne, lampade abbronzanti e confessioni malinconiche, azzecca soprattutto il tono, restituendo un vivido spaccato di vita napoletana, oltre il mondo di “Gomorra”. C’è anche il bagno a Posillipo, in quel quartiere visto come irraggiungibile, quasi da sogno; mentre due belle ragazze adolescenti si confessano serenamente, quasi mettendo nel conto che i loro fidanzati possano finire in carcere o morti sparati.
Un senso di pena misto a speranza traspare da “Selfie”, o forse la sensazione di un destino doloroso, quasi ineluttabile, non saprei dire. Di sicuro un film che non lascia indifferenti.

Michele Anselmi