Nel mondo cinematografico si sa, esistono elementi imprescindibili: luci, ombre, piani sequenze, colori ed inquadrature, per citarne alcuni, e nel primo lungometraggio del regista Manfredi Lucibello “Tutte le mie notti”, uscito nel 2019 ma reso disponibile da Netflix lo scorso 8 aprile, colori e luci giocano un ruolo strategico e fortemente esplicativo. Il film ha una decisa impronta psico-drammatica dovuta alle vicende vissute da due donne, Veronica e Sara, quest’ultima è probabilmente poco più di una ragazza; l’articolazione della narrazione si sviluppa in poche ore, dalla notte al mattino seguente, ma le azioni messe in campo dalle due protagoniste dipendono da un’altra figura di cui inizialmente si percepisce solo la voce, come il Bill di Tarantino, quella di Federico. Quest’ultimo è il proprietario di un’azienda per cui Veronica è la responsabile legale, ma in realtà la sua vicinanza a Federico è spinta da motivi sentimentali che consentono all’uomo di esercitare un’influenza coercitiva su di lei. Sara, invece, compare dal nulla o meglio sbuca dal ciglio di una strada buia illuminata solo da lampioni, come nei film noir, mentre corre freneticamente cercando di scappare da qualcuno che la sta inseguendo. Veronica sembra incontrare casualmente Sara, ma in realtà è stata mandata lì appositamente per comprare il silenzio di quella che si scoprirà essere una baby prostituta. La scenografia e la scelta temporale della notte preparano il terreno drammatico delle scene in cui le ombre segnano profondamente le linee dei volti delle donne, le loro fisionomie e l’ambiente domestico entro cui si confrontano.
L’uso delle luci è limitato e per lo più laterale ma non è mai funzionale ad aprire l’inquadratura, piuttosto tende a chiuderla e ad incupirla ancora di più perché, la sua tonalità fredda, si fonde con le tinte a tendenza monocromatica e con le saturazioni basse, ricalcando il senso di inquietudine. Giocando in una successione di campi e controcampi, posando l’occhio dell’obiettivo sugli sguardi delle due donne, lo spettatore nota subito come anche il trucco sia funzionale alla drammaticità posta in essere da Lucibello: Veronica, almeno all’apparenza, non ha trucco ma l’uso di un fondotinta particolarmente chiaro ne irrigidisce i lineamenti facendo però emergere la vulnerabilità degli occhi color del ghiaccio. Veronica, al contrario, ha del trucco nero sfumato sotto gli occhi, testimonianza di lacrime versate o di un tentativo maldestro di liberarsene. Entrambe le donne, dunque, sono l’una lo specchio riflesso dell’altra nonostante caratterialmente e cromaticamente siano dissimili tra loro, i loro occhi chiari e la pelle diafana proiettano verso lo spettatore le medesime emozioni, incasellandole all’interno della drammatica rappresentazione dei due volti di una medesima medaglia: paura e coraggio, compostezza e sfrontatezza, imprudenza e coscienza, dipendenza affettiva e, forse, anche di un pizzico di empowerment femminile.
Cristina Quattrociocchi