L’angolo di Michele Anselmi 

Alzi la mano chi ricorda il titolo del penultimo film di Tim Burton? L’ho chiesto ai colleghi, uscendo da “Dumbo”, nessuno ricordava, come me del resto. Trattasi di “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali”, del 2016. Non sorprende quindi che l’eccentrico regista, classe 1958, abbia deciso di prendersi una rivincita, anche commerciale, ponendo mano al remake del classico disneyano, anno 1941.
La leggenda vuole che quel “Dumbo”, della durata di appena 64 minuti, fosse stato realizzato in economia e velocità, per tamponare le ingenti perdite causate da “Fantasia”. Di sicuro non bada a spese Burton nel girare la sua personale rilettura della storia che fu inventata da Helen Aberson, stavolta con attori veri, sia pure dentro una tecnica mista a base di tecnologia detta Cgi, ovvero “computer-generated imagery”. Infatti i minuti accreditati diventano 130, anche se io ne ho contati circa 118 vedendo il film alla vigilia della passerella romana di Burton, al quale per l’occasione è stato conferito, al volo, un David di Donatello alla carriera.
Com’è il film, nelle sale da giovedì 28 marzo? Eminentemente per bambini direi, anche se non mancano sfumature e allusioni rivolte ai grandicelli, specie nel finale con messaggio incorporato, per la serie: godiamoci pure il circo, ma senza animali in cattività.
Immersa in una luce artificiosa, mai naturale, appunto per esaltarne il gusto fiabesco, la vicenda parte da Sarasota, Florida, nel 1919. Tornato senza il braccio sinistro dalla Prima guerra mondiale, il cavallerizzo-cowboy Holt Farrier prova a riprendere il posto che gli spetta nel circo dei fratelli Medici, anche se di fratello ce n’è solo uno, il bassetto Maximilian. C’è aria di crisi, il cinema incombe come forma di spettacolo popolare, e l’ex star Farrier deve badare anche ai figlioletti Milly e Joe.
La nascita di un elefantino dalle orecchie spropositate sembra peggiorare le cose, se non fosse che il piccolo pachiderma, deriso per la deformità e presto ribattezzato Dumbo, cioè “tonto”, sa librarsi in aria e volare se sollecitato con una piuma nella proboscide. Il resto lo potete immaginare: Dumbo diventa la vedette del circo sfigatello, ma l’affare fa gola al mefistofelico impresario Vandevere, che gestisce un colossale e sfavillante parco-giochi chiamato “Dreamland” (che il riferimento sornione sia un po’ a Disneyland?).
La sua idea è semplice: far volare Dumbo sotto un gigantesco tendone con la fascinosa trapezista Colette in groppa. Ma c’è qualcosa di marcio sotto, un incubo a occhi aperti, e presto i buoni del circo Medici dovranno allearsi per restituire Dumbo all’amata mamma Jumbo.
Scritto da Ehren Kruger ma totalmente pensato da Burton, il film è una discreta gioia per gli occhi e un sottile esercizio di talento applicato all’immaginario disneyano. Anche se il “Dumbo” a cartoni animati era impossibile da riproporre, a partire dall’incipit con le cicogne che recapitano dal cielo i pargoletti agli animali circensi, per non dire delle chiacchiere tra elefantesse. Burton cita qua e là l’originale, come nella scena degli elefanti rosa “creati” dalle bolle di sapone, lascia da parte il topo Timoteo, introduce una chiave dolcemente realistica nell’impalcatura fantastica, lasciando che “the magnificent flying elephant”, ossia Dumbo, diventi il pretesto per srotolare una parabola morale che ha poco di gotico: dove il miracolo si combina alla scienza, l’onestà vince sull’avidità, lo sguardo infantile rieduca il cinismo degli adulti, l’anomalia irrisa si traduce in esplosiva creatività.
Funziona? Dipende dalle attese. Certo Burton è un notevole regista, fa leva sui meccanismi emotivi, insegue il lietissimo fine e piega un certo grottesco flamboyant al ritratto circense, piazzando sequenze di intensa suggestione visiva.
Gli attori, molti dei quali cari al regista, si intonano al clima generale del film, pure nelle caratterizzazioni fisiche. Colin Farrell, Nico Parker e Finley Robbins sono Farrier e i suoi figli, Danny DeVito è il titolare del circo, Eva Green la sexy-acrobata francese, Michael Keaton il perfido Vandevere, Alan Arkin il banchiere riluttante. In effetti manca all’appello solo Johnny Depp: ma l’uomo sembra essere diventato di difficile gestione, non solo artistica.

Michele Anselmi