Pare quasi che nel suo film del 2016, “Arrival”, Denìs Villeneuve fosse già a conoscenza del fatto che nel futuro imminente avrebbe messo le mani sul progetto “maledetto” di “Dune”. Oggi, il cineasta canadese sembra aver riciclato qualcuna delle idee già presentate nel suo sci-fi drama con protagonisti Amy Adams e Jeremy Renner. Anche in “Dune”, seppur non all’interno dell’atmosfera dei pianeti di cui facciamo conoscenza, vengono mostrate astronavi e gallerie spaziali dalle forme lunghe e ovoidali, come nel precedente lavoro. La stessa cosa accade alla morfologia dei vermi giganti delle sabbie, il cui corpo è appena intravisto nelle loro fugaci apparizioni, ma il muso o meglio la cavità orale dotata di miriadi di denti lunghi e affilatissimi ha la stessa forma circolare. Sempre in “Arrival” l’interloquire della protagonista con la razza aliena svelava la vera natura dei flash a cui assistevamo continuamente: ossia l’apertura della razza umana – nel futuro – alla non linearità del loro linguaggio e del tempo, che nella narrazione stessa del film si attorcigliava improvvisamente su sé stesso, tradendo quello che di primo acchito ci parve un flashback che invece era flash-forward. Arriviamo dunque a Paul Atreides (Timothée Chalamet), che esattamente allo stesso modo e come nel film di Lynch, vede e sogna il pianeta Arrakis e la bella Chani Kynes (Zendaya). Queste visioni e sogni sono premonizioni di un futuro reale sul pianeta, che confondono e turbano fortemente il giovane Paul, facendogli perdere la concentrazione nella sua già carente educazione militare. Le streghe – il duo Rebecca Ferguson e Charlotte Rampling – utilizzano anche loro l’occhio e i poteri divinatori della propria mente per comunicare con lui e fargli sfidare degli ostacoli.

Le sue continue visioni non sono affatto gratuiti pretesti per perdersi nel virtuosismo registico, questa anzi sembra la regia più classica in assoluto di Villeneuve. Il montaggio poi, a cura di Joe Walker, è talmente pulito e fluido che è hollywoodianamente invisibile. Bensì, le visioni profetiche e lisergiche, coadiuvate dalla Spezia presente sul pianeta desertico sono parte fondamentale della narrazione di “Dune”, in quanto è una sostanza allucinogena che permette a chi la possiede di ottenere, oltre a queste visioni, anche grandi mezzi e poteri. Chi abbia visto del lynchano in questa prima parte di un lungo racconto che si presta a diventare quasi la saga del nuovo decennio non ha molto chiaro come stiano in realtà le cose. Le visioni e l’onirico sono certamente presenti nel “Dune” di Lynch e in tutta la sua filmografia, ma lo spirito di questo “Dune” è coniugare il grande spettacolo visivo, ricco di tanta ma convincente computer grafica, a un modo di narrare per niente a favore di pubblico. I tempi in cui questo enorme prologo si dipana sono l’anti-intrattenimento spicciolo: i 155 minuti di film, in cui di azione se ne vede, seppure ben centellinata, hanno il loro ben preciso scopo. Ossia conoscere Paul, la sua quasi adolescenziale inesperienza, nonché venire a comprendere il ruolo di ogni membro della sua dinastia, e infine di coloro che ordiscono il piano quasi shakespearianamente nemico per soverchiare il potere in essere. Certo, può risultare impegnativo, ma non è l’astrazione e il surrealismo di Lynch.

Tuttavia “Dune” è un’opera ben studiata e costruita per creare la giusta tensione ed emozione. Il cast ha delle stonature: non convincono Josh Brolin, attore di razza, qui è quasi assente, e Jason Momoa, spoglio del suo unico pregio, vale a dire la combo capelloni-barba e i muscoli; Paul e Jessica, di contro, interessano a fondo: Chalamet è l’attore, o meglio, il corpo perfetto per incarnare l’impacciato bamboccio forse uscito troppo prematuramente dall’utero materno della madre sacerdotessa. E quest’ultima sembra quasi rivolerlo tutto per sé nel proprio grembo, ma, non potendo più tornare indietro, brama come posseduta dal demone della sua Reverenda Madre una costante simbiosi, telepatica e fisicamente provante con lui, al limite con l’incestuoso. Tanta carne al fuoco? Può darsi, ma quasi nulla sembra lasciato al caso. Il film inizia lento, ma inesorabile nel freddo e boschivo pianeta di Caladan e finisce per scaldarsi e diventare umido, terroso, febbrile ed ambiguo nel pianeta di Arrakis. Come viene platealmente detto in locandina e nel finale, “questo è solo l’inizio di un viaggio straordinario”.

Furio Spinosi