L’angolo di Michele Anselmi 

Steve Carell, classe 1962, è un attore coi fiocchi: partito come comico con film del tipo “40 anni vergine”, è diventato negli anni un interprete versatile, cangiante, profondo, con una predilezione per i personaggi drammatici, anche torvi o perdenti. Timothée Chalamet, classe 1995, molto apprezzato per “Chiamami col tuo nome”, si avvia a diventare il nuovo Leonardo DiCaprio, ma in una chiave più perversa e ambigua, insinuante, complice il suo bellissimo viso da “giovane maledetto”.
Insieme hanno girato “Beautiful Boy”, nelle sale con 01-Raicinema da giovedì 13 giugno dopo un passaggio alla scorsa Festa del cinema di Roma. Trattasi di storia vera, verissima, desunta dai libri autobiografici di David Sheff e Nic Sheff, che sono padre e figlio nella vita. Vi si parla, da due diversi punti di vista, di tossicodipendenza, perché la domanda è proprio questa: basta una dedizione totale, commovente, a salvare un diciottenne riempito di droga fino quasi a morirne?
In effetti è un miracolo che Nic sia vivo, un cartello sui titoli di coda ci informa che è “pulito” da otto anni, e la foto sul manifesto qui sotto comunica un senso di speranza, perché chiude il film scritto da Luke Davies e diretto dal regista belga Felix Van Groeningen (quello di “Alabama Monroe”).
Tra andirivieni temporali, scarti spiazzanti, citazioni dal solito Bukowski e canzoni in quantità, tra le quali appunto la “Beautiful Boy” di John Lennon che offre il titolo, il film è di quelli che ricostruiscono, tappa per tappa, un rapporto scorticato. Non c’è povertà o degradazione nella vita del giovane Nic. Suo padre è un famoso e benestante giornalista free-lance, con Volvo station-wagon, giacche di velluto, barba, stupenda casa nel bosco, una seconda moglie amatissima che gli ha dato due figli. Eppure, forse suggestionato dalle canzoni dei Nirvana o magari solo per irrequietezza interiore, il giovanotto fa uso di droghe da quando aveva dodici anni; e adesso, col cervello bruciato dalla micidiale Crystal Meth, le cose stanno rapidamente peggiorando.
“Beautiful Boy” in buona sostanza è il racconto di una “via crucis”, punteggiata di sconfitte e bugie, segnali rassicuranti e nuove sconfitte, mentre l’impavido giornalista le tenta tutte, sniffando egli stesso cocaina per provare a capire cosa accade nel cervello di un “tossico”, pur di stare vicino al figlio sempre più perso in quel gorgo malefico.
Bisogna riconoscere che “Beautiful Boy”, benché troppo lungo e un po’ tedioso, non addolcisce la pillola, mette in fila i fatti, sbatte in faccia allo spettatore l’impotenza dolorosa di quel padre disfatto e la dipendenza rabbiosa di quel figlio incattivito. Tragico “up-and-down” di situazioni, come abbiamo visto in tanti film, anche se qui è la sensazione di smarrimento, soprattutto di ineluttabilità, che dà forza alla storia. Battuta cruciale, detta in sottofinale dalla madre di un drogato: “Essere in lutto per i vivi è un brutto modo di vivere”. Già.

PS. Timothée Chalamet è lo stesso attore che s’è dissociato da Woody Allen, per via delle note polemiche, dopo aver girato con lui “A Rainy Day in New York”. Ha donato quanto guadagnato sul set all’iniziativa “Time’s Up” contro le molestie e ad altre “charity”. Ingrato o corretto?

Michele Anselmi