L’angolo di Michele Anselmi
Lei scappa spaventata, inerpicandosi velocemente di spalle su una duna di sabbia, da qualcuno che la desidera con la scusa di volerla proteggere; lui è un immigrato clandestino col suo zainetto, dedito a prostituirsi per sopravvivere visto che tutti lo scacciano. Lei si chiama Anna, bianca, ha 19 anni; lui si chiama Basim, nero, viene dalla Costa d’Avorio, suppergiù la stessa età. Avrete capito che sono loro il “Fiore gemello” evocato dal titolo; un fiore immaginario e raro, nasce da un unico gambo, una specie di “deformità” che invece, per dirla con la regista Laura Luchetti alla sua opera seconda, “può celare una bellezza”.
Nelle sale da giovedì 6 giugno con Fandango, il film, prodotto da Giuseppe Gallo, è di quelli che richiedono pazienza e dedizione, perché sospinti da un andamento circolare, errabondo, a forte tasso metaforico, tra situazioni sospese, scarne parole e musiche solenni, mentre la natura selvatica, quasi arcaica e remota, della Sardegna, tra saline, boschi, ruscelli nascosti, uccelli in volo, case “sgarrupate”, si fa personaggio.
Anna, scioccata da ciò che ha appena visto in riva al mare, sembra aver perso la voce, vuole solo sottrarsi all’inseguimento di quell’energumeno ferito e barbuto che traffica con i migranti appena sbarcati. Basim, che forse ha conosciuto quello stesso lestofante prima di darsi alla macchia, è guardingo, ma vede in Anna un’anima in pena, una ragazza ulcerata, forse una possibile complice. Si scaldano, si amano teneramente, si proteggono a vicenda, fidandosi l’uno dell’altra. Ma il cattivone manesco è sulle loro tracce, e qualcuno già ci ha rimesso la pelle…
“Fiore gemello” è una sorta di favola nera, anche fosca, ma sotto un sole abbacinante; la narrazione è spezzettata, ellittica, il tono a tratti poetizzante, non tutto viene spiegato, l’idea è di far muovere i due fuggitivi dentro una natura protettiva, diventando essi stessi natura, contro la mala pianta di un razzismo strisciante, pervasivo, anche camuffato.
Funziona? Bisogna crederci, pure amare un cinema esteticamente meditato, un po’ artificioso nella ricerca formale spinta, dove ogni sequenza viene tagliata o troppo presto o troppo tardi, come per sfuggire a una tradizionale costruzione della tensione.
Vai a sapere se i due giovani interpreti esordienti, l’ucraina Anastasya Bogach e l’ivoriano Kallil Kone, abbiano pescato nel loro vissuto per dare più verità alla fusione inattesa della tenera coppia, mentre il versante adulto è coperto da Aniello Arena e da Giorgio Colangeli, rispettivamente l’orco sul Suv e il mite fioraio con la treccina di capelli. Finale di moderata speranza, il che non guasta coi tempi che corrono.
Michele Anselmi