L’angolo di Michele Anselmi 

Vent’anni fa, tra undici giorni, il 19 gennaio 2000, moriva Bettino Craxi ad Hammamet. E proprio “Hammamet” si chiama il film di Gianni Amelio che racconta il crepuscolo – umano, fisico e politico – del leader socialista scomparso a 65 anni. Non “un latitante”, secondo il regista mai stato vicino al Psi, e nemmeno “un esule”; semmai, come precisa sottovoce quasi a sottrarsi alle opposte tifoserie, “un contumace”, in senso letterale.
Il film, prodotto da Agostino Saccà insieme a Raicinema che distribuisce dal 9 gennaio in 430 copie, è di quelli destinati a far discutere, forse a riattizzare opinioni e schieramenti, s’intende a riempire le pagine dei quotidiani. Tra i giornalisti del ramo c’è chi lo considera “doroteo”, chi “senz’anima e senza pathos”, chi “divagante”, chi “reticente”; e anche il figlio Bobo ha già fatto sapere, in un’intervista fatta calare ad hoc sulla presentazione alla stampa, di trovarlo “troppo romanzesco”.
Magari, nonostante il titolo, molti si aspettavano qualcosa di diverso, una sorta di cine-biografia; invece Amelio, a due anni da “La tenerezza”, spiega di aver voluto “prendere in esame solo sei-sette mesi della lunga agonia di un uomo di potere che ha perso il potere e va verso la morte”. Di più: “un uomo macerato fino all’autodistruzione nell’eremo tunisino dove non si è messo in salvo”. Così la vede il regista e così andrebbe giudicato “Hammamet”: lungo oltre due ore, malinconico e meditabondo, a suo modo rispettoso, un po’ ondivago, purtroppo bombardato, in tutta la prima parte, dalla musica enfatica di Nicola Piovani che ingloba e deforma il tema dell’Internazionale.
Naturalmente il film non esisterebbe senza la prova di Pierfrancesco Favino. Il complicato trucco “prostetico” messo a punto da Andrea Leanza e Federica Castelli (roba da cinque ore al giorno) lo rende quasi un sosia di Craxi, specie quando inforca gli occhiali; e tuttavia l’attore, già impressionante Tommaso Buscetta per Bellocchio, qui sembra cancellare totalmente sé stesso per restituire non solo gesti, espressioni, tic e voce dell’illustre socialista, bensì la sua natura più profonda, contraddittoria, asprigna. Risultato: non pensi a Favino “mascherato” da Craxi ma vedi e ascolti un Craxi già prossimo all’epilogo.
In realtà c’è un incipit ambientato nel 1989, quando, uscito trionfale dal 45° Congresso, quello monumentalizzato dalla piramide dell’architetto Panseca, il segretario socialista s’intrattiene con il preoccupato tesoriere, ex operaio, che gli profetizza il crollo per via giudiziaria e l’uragano di “Mani Pulite”. Ma si salta subito a un decennio dopo, al 1999, nella villetta tunisina di Hammamet dove Craxi, con la gamba sinistra a un passo dalla cancrena a causa del diabete, conduce un’esistenza malinconica e rancorosa, tra familiari premurosi e guardie del corpo.
Scritto dallo stesso Amelio insieme ad Alberto Taraglio, il film alterna due formati diversi, in modo da distinguere il versante privato dalle affermazioni pubbliche, il romanzesco dalla politica, mentre l’incedere della malattia fatale introduce un elemento di tragica ineluttabilità. La fine è nota. Quasi ad alzare il tiro, diciamo metaforico, Amelio evita per tutto il film di far echeggiare il nome di Craxi, sempre chiamato “il Presidente”. Vale anche per gli altri personaggi, alcuni dei quali indossano nomi inventati (la figlia Stefania si chiama Anita). Poi c’è Fausto, quasi un omaggio a “Colpire al cuore”: il giovanotto instabile e insinuante che si introduce nella villa portandosi dietro un segreto doloroso.
Naturalmente, tra gli esperti, scatterà il giochino del “chi è chi”, e certo il tesoriere ha qualcosa di Vincenzo Balzamo, l’amante ricorda Anja Pieroni, l’ospite democristiano è un mix tra Cossiga e Pomicino, mentre la lettera che manda in bestia Craxi è indiscutibilmente quella scritta da Amato.
“L’intelligenza è un’arma a doppio taglio. Ma la preferisco. Che te ne fai della lealtà di uno stupido?” scandisce a un certo punto l’ex potente che divora di nascosto piatti di pasta, si commuove di fronte al figlio Bobo intento a cantare alla chitarra “Piazza Grande”, risponde per le rime a un gruppo di turisti che gli gridano “ladro” rievocando il lancio delle monetine.
Suggestioni di impianto classico, come il rapporto tra Elettra e Agamennone esplicitamente citato nelle note di regia, si mischiano a strizzatine d’occhio cinefile, da “Là dove scende il fiume” a “Le catene della colpa”; ma il cuore del film sta altrove: nella desolata attesa della morte in quella Tunisia, patita e amica, dalla quale Craxi scappa nel sogno finale, immaginandosi in cappotto, sciarpa e piedi scalzi nel luogo che gli è più caro, forse alla ricerca di una riconciliazione lesta a svanire di fronte al sarcasmo fetido di due comici in stile “Bagaglino”.
Diciamo che “Hammamet”, forse pressato dall’ansia di non apparire schierato, in un senso o nell’altro, finisce con l’essere sfuggente, qua e là sfocato nel tenere insieme episodi veri e incontri inventati. Una scommessa comunque rischiosa, pure stilisticamente, alla quale contribuiscono i tanti attori coinvolti: da Giuseppe Cederna a Luca Filippi, da Livia Rossi a Silvia Cohen, da Renato Carpentieri a Claudia Gerini.
PS. Mi pare di ricordare che la bella frase messa in bocca a Craxi – “Bisogna aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita” – sia di Enzo Bianchi.

Michele Anselmi