L’angolo di Michele Anselmi

Non c’è nessuna Leonora in “Leonora addio”, il nuovo film di Paolo Taviani, classe 1931, il primo realizzato senza il fratello Vittorio scomparso nel 2018. Parrebbe quindi un titolo “a chiave”, nel senso che il cineasta toscano, nel ricalcare le orme di Pirandello a 37 anni da “Kaos”, evoca a una novella del 1910, appunto “Leonora, addio!”, nella quale risuona un’aria del “Trovatore” verdiano dedicata all’eroina eponima. Solo che nulla di ciò si vede nel film passato oggi in concorso al festival di Berlino e da giovedì 17 nelle sale con 01 Distribution – Rai Cinema.
Ma forse, senza cercare di spiegare tutto o troppo, meglio lasciarsi andare al flusso di suggestioni che Taviani, pure soggettista e sceneggiatore, trasfonde in questo dittico pirandelliano che usa prima il bianco e nero e poi il colore, dentro una prospettiva drammaturgica all’insegna dell’Assurdo (stavolta la maiuscola ci sta).
È la voce di Roberto Herlitzka a restituire quella di un Pirandello già vecchio e stanco, ripreso, tramite immagini d’epoca, mentre riceve l’ambito premio Nobel nel 1934. “Non mi sono mai sentito tanto solo e tanto triste” è il suo pensiero mentre siede nell’Olimpo dei premiati; e subito dopo aggiungerà: “Il dolce della gloria per compensare l’amaro di quanto è costata”.
Di lì a poco arriva la sequenza più sorprendente del film, all’insegna di un iperrealismo astratto: una stanza bianca, lattiginosa, che sembra non avere spigoli, con poche suppellettili, e lui, Pirandello, ripreso di spalle nel letto dell’agonia mentre, forse sognante o già morto, incontra i tre figli, un attimo prima bambini, poi giovani, infine canuti.
Film diviso in due, si diceva. Il primo capitolo riguarda, per citare il regista, “il grottesco delle ceneri sballottate dal caso e dalla stupidità umana”, e davvero pare uscire dalla penna di Pirandello. Il quale, morto di polmonite il 10 dicembre 1936, non poteva immaginare che, contrariamente alle ultime volontà messe per iscritto, le sue ceneri sarebbero rimaste tumulate al Verano per una decina d’anni. Solo nel 1947, a guerra finita, l’urna cineraria fu smurata per essere traslata ad Agrigento, anche su iniziativa di Andrea Camilleri; ma non fu un trasferimento facile, nonostante l’amorevole cura del professor Gaspare Ambrosini salito dalla Sicilia per riportare quei resti nell’isola. Superstizioni ataviche legate al “morto”, le sorprese del lungo viaggio in treno, l’imbarazzo del vescovo di fronte al vaso contenente le ceneri, infine la ricerca di una piccola bara per la benedizione resero piuttosto goffo il funerale pubblico, con tanto di corteo alla presenza degli attori pirandelliani. Solo nel 1962, cioè altri quindici anni dopo, l’urna cineraria sarebbe stata “murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”, secondo il desiderio di Pirandello.
Con annotazioni tra sapide e tenere, Taviani restituisce le dinamiche di quella tripla sepoltura, facendo affiorare il buffo della situazione, e insieme aprendo il bianco e nero al colore del mare siciliano, in modo da approdare al secondo capitolo, liberamente ispirato a una novella, “Il chiodo”, scritta da Pirandello poco prima di morire.
Non siamo più in Italia, ma nella Brooklyn degli immigrati, dove, sulla falsariga di un fatto di cronaca, assistiamo al furore tragico che spinge il giovanissimo Bastianeddu a uccidere, piantandole in testa un lungo chiodo raccolto per terra, la piccola Betty, fulva e linguacciuta, intenta a litigare con un’amichetta più grande. Perché lo fa? Da cosa nasce quel gesto insensato? E quanti anni impiegherà l’assassino, una volta uscito dal carcere, per far pace con sé stesso nel culto appassionato di quella povera vittima innocente?
“Leonora addio” è un film divagante e un po’ cervellotico, fortemente stilizzato sul piano estetico; ogni sequenza risulta costruita con certosina cura, cesellata, quasi a esprimere la purezza visiva di un cinema che si rispecchia nel cinema stesso. Frammenti di film cari al regista si mischiano infatti nell’incedere della doppia storia: da “Paisà” di Rossellini a “L’avventura” di Antonioni, da “Il sole sorge ancora” di Vergano a “Estate violenta” di Zurlini, più “Kaos” degli stessi Taviani.
Prodotto da Donatella Palermo, il film si avvale di collaboratori illustri, come Paolo Carnera e Simone Zampagni alla fotografia, Nicola Piovani alle musiche, Roberto Perpignani al montaggio; mentre sul fronte degli interpreti il pubblico riconoscerà, tra quelli più noti, Fabrizio Ferracane, Claudio Bigagli, Enrica Maria Modugno.
Si esce da “Leonora addio” con una curiosa sensazione, viene da pensare che Taviani abbia usato l’amato Pirandello per rivelare qualcosa di sé: il tempo che passa, l’età avanzata, gli “scenari” della vita, il paradosso stipato in certi eventi, la tragedia che si mischia alla farsa, il cinema che tutto permea e racchiude.
PS. La bambina che fa la linguaccia nella locandina, ancor più fuorviante e incongrua dopo aver visto il film, si chiama Dora Becker.

Michele Anselmi