L’angolo di Michele Anselmi 

Modernità di “Piccole donne”. Sì. Non sembri un controsenso o un’esagerazione. Il romanzo di Louise Mary Alcott (1832-1888) è stato portato al cinema innumerevoli volte, almeno quattro, a partire dalla prima versione sonora di George Cukor del 1933, con Katharine Hepburn nel ruolo di Jo, e tuttavia questa cine-rilettura di Greta Gerwig mi pare di gran lunga la migliore. Esce giovedì 9 gennaio con Warner Bros, dura ben 135 minuti, è fedele al romanzo, che fu pubblicato in due parti nel 1868 e nel 1869, e tuttavia reinventa in buona misura, senza tradirlo, il personaggio cruciale di Jo.
Confesso: ero andato un po’ rassegnato all’anteprima per i critici, temendo di annoiarmi, invece sono rimasto intrappolato quasi subito nel congegno drammaturgico orchestrato dalla regista californiana di “Lady Bird”. Perché Greta Gerwig, nella vita anche attrice, smonta il romanzo e lo riassembla con piglio fantasioso, anche spiazzante, che mischia le stagioni e gli eventi, rompendo l’andamento cronologico del racconto tipico dei film precedenti, pure suggerendo un rapporto ancora più stretto tra il personaggio di Jo e la biografia della sua creatrice letteraria.
Delle quattro sorelle March, colte tra l’adolescenza e la prima maturità mentre non sono ancora spenti i macelli della Guerra civile americana, Jo è indiscutibilmente la più interessante, una sorta di proto-femminista. Nel film si definisce “rozza, sgraziata e stramba”, anche “arrabbiata e irrequieta”, invece è semplicemente la più avanti coi tempi. D’accordo, versa qualche lacrima dopo aver venduto la folta capigliatura fulva per 25 dollari, in modo da aiutare la famiglia a tirare avanti (il padre cappellano “trascendentalista” è rimasto ferito al seguito dei nordisti). Ma i capelli ricrescono presto a quell’età e lei, intenta a scrivere racconti che l’editore vorrebbe più drammatici e romantici, si muove tra le strettoie dell’esistenza con una grinta, anche scaltra, che ne fa subito un’eroina. “Ho attraversato molte difficoltà nella vita, per questo scrivo storie allegre” recita una frase sui titoli di testa, anche se naturalmente qualcuno morirà nel corso della complessa e corale vicenda.
Scrive Nadia Terranova in un bell’articolo per “La Rivista del Cinematografo”: “Volevamo tutte essere Jo, crescendo ci siamo ritrovate Meg, abbiamo capito tardi che ad aver ragione era Amy e qualcuno di noi, purtroppo, è stata Beth”. Sono, appunto, le quattro sorelle March, allevate in una famiglia irregolare e progressista, benché sempre più squattrinata, con una madre, Marmee, che tutti avremmo voluto avere. Meg, la maggiore, vuole fare l’attrice ma finisce con lo sposarsi presto e fare figli con un uomo spiantato e generoso; Jo, indipendente, creativa e refrattaria ai legami, respinge l’affascinate e facoltoso Laurie che la corteggia e solo più tardi scoprirà di essere attratta dal professore tedesco Bhaer; Beth, dolce e cagionevole di salute, non suonerà a lungo il piano donatole dal ricco vedovo vicino di casa; mentre Amy, civettuola, con velleità pittoriche unite a un forte senso pragmatico, sarà l’unica a sposarsi con “un buon partito”, cioè Laurie, lo stesso disdegnato da Jo. In questo dando retta alla burbera, ricchissima e zitella zia March, la quale teorizza (battuta mirabile): “Non avrò sempre ragione, ma non ho mai torto”.
Echi pittorici di Winslow Homer e Lilly Martin Spencer, per diretta ammissione della regista, si mischiano a suggestioni filosofiche legate alle teorie di Henry David Thoreau e al pensiero di Nathaniel Hawthorne, pure al percorso simbolico evocato da “Il pellegrinaggio del cristiano” di John Bunyan. Ma, citazioni colte e riferimenti a parte, è poi il film a crescere strada facendo, nell’alternanza di eventi allegri e tristi, di strattoni e convenienze, talché le sorelle March diventano emblema di una rivoluzione familiare che forse anticipa, sia pure in chiave di racconto pedagogico, i temi della cosiddetta questione femminile.
Saoirse Ronan, sempre più brava, mi pare perfetta nel ruolo di Jo, così fragile e tosta, risoluta nel costruire il proprio destino di scrittrice; ma sono ben scelte anche Emma Watson, Florence Pugh ed Elizabeth Scanlen nei panni rispettivamente di Meg, Amy e Beth. Più giovani rispetto alle precedenti cine-versioni anche gli interpreti maschili, tra i quali Timothée Chalamet, dalla bellezza mercuriale e triste, e Louis Garrel, il prof Bhaer che parla schietto; mentre il contesto femminile adulto è arricchito da Laura Dern e Meryl Streep, la provvida mamma e la burbera zia.
Difficile non citare il montaggio di Nick Houy, perché questo “Piccole donne” molto deve, come si diceva, alla scansione imprevedibile del racconto; ma anche la fotografia di Yorick Le Saux e la musica di Alexandre Desplat non sono da meno.
Lo so, “Piccole donne” è considerato da sempre un classico per ragazze, un testo allergico ai gusti maschili. Chissà che il film di Greta Gerwig non smentisca la nomea, insieme sbriciolando qualche prevenzione (pure femminile).

Michele Anselmi