Al salone del libro di Torino, sempre in lotta con Milano, quest’anno ci sarà una sorpresa. Per celebrare i 200 anni del capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein, in una villa verranno rinchiusi 4 scrittori col compito di scrivere un racconto di ghost. Forse una scelta più allegorica che letteraria, per alludere al fantasma che si aggira per l’Italia: quello della scomparsa di molte librerie indipendenti, falcidiate da Amazon. Si può competere con un moloch che già prima dell’inizio dell’anno scolastico è in grado di offrire sconti a milioni di genitori per i testi dei figli? Nonostante la morìa delle librerie l’editoria italiana non va male. L’ultimo fatturato è cresciuto del 5,8%, per un totale di 1.485 miliardi di euro. Amazon, in perfetto stile democratico, si rifiuta di fornire i suoi dati.
Nel 2017 i nostri editori hanno venduto 88,6 milioni di copie, l’1,2% in più rispetto al 2016. Una crescita che non accadeva da sette anni. Eppure a fronte di numeri incoraggianti le librerie spariscono lo stesso. Ne parlo con due librai di Roma in occasione della presentazione di un romanzo di cui molto si parla, Le case del malcontento, di Sacha Naspini, lodato sul Fatto da Stefano Feltri. La Maremma dell’autore è stato paragonato alla Napoli della Ferrante. Non è un caso che sia pubblicato dalla stessa casa editrice, la E/O, guidata da Sandra e Sandro Ferri. Di recente hanno avuto il coraggio di mettersi alla guida di una pattuglia in lotta contro lo strapotere di Amazon, non offrendo più i loro titoli. E’ probabile che ci rimetteranno, ma lo scatto di orgoglio sarà di esempio per altri editori. Com’è la vita di un libraio indipendente? Lo chiedo a Barbara e ad Alessandro, perfetto esempio di una specie in via di estinzione. Quelli come loro, schiacciati dalla grande distribuzione, capace di praticare sconti che i piccoli non possono permettersi, vivono una vita magra. Se continuano, è per passione, certo non per guadagno.
C’è però una cosa che né Amazon né la grande distribuzione sono in grado di fare: consigliare i lettori. Quanto viene pubblicato in Italia? Circa 66.000 titoli l’anno. Una cifra sconsiderata, se si considera che una grande percentuale finisce al macero. Siamo un paese che scrive ma non legge, che ambisce a essere pubblicato anche solo per farsi bello con gli amici o con la fidanzata. Tra le critiche mosse dagli indipendenti ai grandi editori c’è l’accusa di “comprare” le vetrine per avere in bella mostra il loro titolo. Non tutte le librerie si prestano, ma è indubbio che la pila di un romanzo ben visibile possa indurre a comprarlo più di un altro relegato tra gli scaffali. A essere penalizzato è chi non ha i soldi per essere pubblicizzato. Barbara e Alessandro mi raccontano dei supermercati che smerciano libri come fossero scatolette: trovarli mischiati in mezzo ai detersivi non è un bel vedere. Lì il piccolo editore difficilmente arriva a essere presente. I libri vengono esposti insieme a ogni tipo di prodotto, con il rischio di dequalificarne il valore. E infatti troviamo solo i campioni d’incasso, le cui copertine sono già un esempio di commercio spiccio, argentate e plastificate, per indurre a comprare l’immagine non il contenuto. In molti casi finirà non letto tra gli oggetti di arredo. Da un po’ di tempo vendono libri anche gli uffici postali, forse per mitigare le estenuanti attese. Assisto alla presentazione di cui sopra e noto che sono stipate una trentina di persone, tutte donne, eccetto due maschi, nascosti nell’ultima fila, quasi si vergognassero. Chiedo come mai. Risposta: sono le donne a leggere di più. Perché hanno più tempo? No, perché sono più sensibili e attente. Forse anche perché più disponibili a sognare? Prediligono la narrativa, mentre i maschi sono più propensi alla saggistica.
Incontro uno dei nostri migliori editor, Claudio Ceciarelli (cugino di Monica Vitti, il cui vero cognome è appunto quello). Sono loro che assistono gli scrittori a tagliare, cucire, ripensare. Un po’ come i montatori dei film. Quando vivevo a New York in casa di Robert Gottlieb, l’editor americano forse più famoso, lo vedevo confrontarsi in battaglie estenuanti con Anthony Burgess, l’autore di Arancia meccanica, da cui Stanley Kubrick ha tratto il mitico film. Era difficile capire chi fosse l’editor e chi lo scrittore, tanto è importante quel ruolo. Nel caso del romanzo di Naspini, Ceciarelli ha lavorato a tagliare circa 150 pagine dalle 600 originali. Ci sono autori che se tagli una riga è come gli tagliassi una mano, alcuni sanguinano. Un tempo il lavoro degli editor lo facevano gli editori, ma oggi non sono più loro a leggere per primi. Se hanno fiuto, sono in grado di consigliare se pubblicare o no anche solo dall’incipit di un manoscritto. Di Naspini Ceciarelli ha letto una ventina di pagine, ha dato uno sguardo qua e là e ha subito chiamato i Ferri per dire di non lasciarselo sfuggire. Chiedo: le classifiche settimanali servono a vendere? Qualche sospetto sulla loro affidabilità occorre averlo. Sorprende che, affidate a istituti demoscopici diversi, appaiano quasi tutte differenti. C’è qualcosa che non torna. Come diceva Andreotti, diffidare male non fa.
I dati delle classifiche vengono raccolti interrogando le librerie più importanti, ma non è detto che siano loro a vendere di più. Così come non è detto che il romanzo più smerciato sia anche quello che resisterà nel tempo. Ne è un esempio la Ferrante che al suo esordio non appariva ai vertici di nessuna classifica, ma poi è diventata un bestseller mondiale. I Ferri grazie al successo Ferrante hanno aperto una casa editrice anche in America (Europa Editions) e pubblicano altri autori italiani di altre case editrici. Non dobbiamo credere che oltre oceano la situazione sia molto diversa dall’Italia. Anche laggiù i bestseller sono spesso effimeri e la buona letteratura stenta a decollare. Sandro Ferri mi dice che certi titoli di eccellenti scrittori americani a volte vendono più copie a Milano che a New York. Per una volta che l’Italia ce la fa dovremmo essere contenti e battere le mani. Infine che dire dell’esercito di aspiranti scrittori che intasano le case editrici? Non è facile rispondere a tutti, ma c’è chi lo fa. Metti mai che si scopra un nuovo vate. All’inizio passò le forche caudine anche il nostro Gabriele D’Annunzio, il cui vero cognome era Rapagnetta. Finché usava quel nome nessuno lo prendeva in considerazione. Appena decise di cambiarlo nel pomposo D’Annunzio ecco che spiccò il volo, sino diventare l’italico eroe. Potere del marketing.
Roberto Faenza