L’angolo di Michele Anselmi
La verità? Quando vado al cinema, da qualche tempo a questa parte, io sento un gran bisogno di lieto fine; o, come dicono gli anglosassoni, di “happy ending”. Magari è sintomo di rammollimento, e tuttavia il sentimento mi pare diffuso, almeno tra quelli di una certa età, diciamo sopra i sessanta. Qualcuno ha già parlato di “frankcaprismo” di ritorno, da Frank Capra, il regista americano considerato, talvolta con un certo schematismo, il campione di una visione ottimista della vita. Vai a sapere se è vero.
Certo conterà la lunga e penosa stagione del Covid, adesso i riflessi tra sociali e nevrotici della guerra in Ucraina, domani chissà. Per mestiere, diciamo, continuo a vedere tanti film, sia quelli che escono in sala sia quelli offerti dalle piattaforme digitali; ogni volta, prima di scegliere, provo a capire come si chiuderà la storia. Se qualcosa mi suggerisce che ai personaggi le cose andranno per il meglio, magari dopo inciampi, strettoie e sofferenze, anch’io mi dispongo alla visione con una punta di convinzione in più, un animo diverso.
Giusto per fare un esempio: da giovedì scorso c’è in giro nelle sale italiane un piccolo film d’esordio scritto e diretto da Giulia Louise Steigerwalt, si chiama “Settembre”. Non sta incassando bene, come quasi tutti i titoli d’autore e dintorni, a parte i kolossal Usa tratti dai fumetti, eppure lo raccomando ai curiosi, perché inscena una “commedia umana” dai sapori universali partendo da otto personaggi piuttosto incasinati, e di età diverse, intrecciando in parte i loro rovelli esistenziali o sentimentali, per approdare a un finale di speranza, non pigramente rassicurante, ma che però invoglia lo spettatore a uscire dalla sala con un sorriso (e non mi pare una colpa o una furbizia).
D’accordo: Orson Welles, il titanico regista e attore americano di “Quarto potere”, sul tema soleva dire che «un lieto fine dipende solo da dove interrompete la storia”, e c’è del vero; mentre il romanziere russo Vladimir Nabokov, quello di “Lolita”, sfoderava un’opinione meno possibilista: «Certe persone, e io sono tra esse, odiano il lieto fine, ci sentiamo defraudati, il dolore è la norma».
Forse si può stare nel mezzo, sapendo bene che la logica sceneggiatoria, cioè la costruzione di un racconto, risponde a esigenze le più varie, legate al materiale drammaturgico mobilitato (storico, geografico, umano, sentimentale, sociale…), pure all’intima coerenza dell’epilogo. Non si tratta di edulcorare per piacere a tutti; ma come teorizzava un sagace cine-critico scomparso, Claudio Carabba, «al cinema si può certamente bluffare, ma non si dovrebbe barare». Proprio così.
Naturalmente bisogna essere onesti: vedere un film o seguire una serie televisiva non è la stessa cosa. Un film, accade specialmente con i kolossal hollywoodiani tratti dai fumetti, può certo lasciare la porta aperta a un seguito, magari con una sequenza a effetto piazzata dopo i titoli di testa (ormai si resta in sala, con quel genere di spettacoloni, fino a quando non si accendono le luci), ma la vicenda dovrebbe essere comunque chiusa in sé; una serie televisiva pratica quasi sempre, invece, il cosiddetto “cliffhanger”, in modo che il telespettatore resti come appeso a una scogliera, dopo l’ultima puntata, in attesa del seguito che verrà, se gli ascolti saranno buoni.
Ciò detto, il lieto fine, basti anche che sia “mezzo” per non esagerare, mi sembra un modo ragionevole per risolvere una storia che voglia avere una sua dimensione popolare. Non si tratta di nascondere la durezza o la ferocia degli eventi, sarebbe ipocrisia; guardate l’appena uscito “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” e scoprirete come l’FBI di Hoover perseguitò la grande cantante nera morta a 44 anni nel 1959 solo per impedirle di cantare ai concerti “Strange Fruit”, una canzone terribile, a suo modo lirica, sui linciaggi ai danni dei neri praticati negli Stati del Sud. Ma, siamo sinceri, un film che finisce “male”, nel senso della vicenda, non dello stile, lo rivedi sempre meno volentieri di altri, perché – sento già i fischi – la funzione del cinema è farti riflettere su quanto stai vedendo, anche di serio e doloroso, lasciandoti però un palpito di speranza, di possibile redenzione/guarigione. E questi tempi che viviamo, un po’ stolidi, fessi, angosciosi, scorticati, consumati spesso in solitudine, suonano più accettabili se qualcuno sullo schermo, piccolo o grande che sia, non finisce ko al termine del racconto.
Ha scritto Alberto Angelini, psicologo del cinema: «Non solo il lieto fine soddisfa le severe esigenze del super io; in qualche modo il conto si pareggia sempre e sopravvive la gratificante sensazione relativa all’esistenza di un superiore equilibrio civile». Sarò banale, prevedibile come certi finali, ma concordo.
Michele Anselmi